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L’estate è arrivata, anche quest’anno.

E in questi giorni dall’afa che ci fa boccheggiare e il sole alto nel cielo, Ritenzione lirica e Blufiordaliso arrivano con l’ultimo articolo condiviso della stagione 2018/2019.

La nostra collaborazione è nata lo scorso settembre ed è continuata con un articolo condiviso ogni mese: vi abbiamo parlato di tanti argomenti diversi, consigliato libri, dedicato poesie.

L’articolo condiviso di giugno è un po’ anomalo, rispetto agli altri.

Sarà più stringato, ma il suo significato è pregno di importanza e profondità.
Per scriverlo ci abbiamo messo parecchio tempo, ci abbiamo pensato e ripensato.
Ci siamo incontrate e ne abbiamo discusso, davanti a un cocktail al melograno.
Già, perché i nostri pensieri corrono veloci e, anche se siamo costantemente prese da decine di altre cose da fare, ciò che sentiamo veramente importante rimane sempre con noi.

I prossimi mesi saranno densi di bei progetti, per entrambe.
Progetti di realizzazione personale, ne siamo consapevoli.
Ma sappiamo pure che ogni piccolo gesto compiuto individualmente influenza in qualche modo la società in cui viviamo.
Una società complicata, intricata, tesa, a volte impraticabile; ma anche bella e piena di persone che danno un senso alle nostre vite.

E noi cosa possiamo fare per la comunità in cui viviamo?
Certi giorni l’unica risposta che ci pare abbia un senso sembra essere “la rivoluzione”.
Ci siamo chieste come potremmo farla, una rivoluzione. Se sia giusto oppure no.
Se ne saremmo in grado.
Una risposta definitiva a tutti questi interrogativi, ovviamente, non l’abbiamo trovata.
Quindi ciò che possiamo fare, durante questi caldi mesi estivi, è studiare, informarci, leggere, pensare seriamente.

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Questo articolo vuole essere un invito a tutti noi, un incoraggiamento a utilizzare bene il tempo delle vacanze, che deve essere tempo di riposo e anche di consapevolezza.
E allora, ecco i nostri

DIECI CONSIGLI PER UN’ESTATE DAVVERO RIVOLUZIONARIA

  1. L’estate è la stagione in cui andiamo in vacanza.
    Non ci perderemo in giri di parole. Il turismo è la terza industria più inquinante al mondo. Proprio così.
    Tutti quei voli low cost hanno un impatto sul clima; ma ci sono anche molte compagnie aeree che con un supplemento minimo si impegnano a piantare abbastanza alberi da ridurre o persino neutralizzare l’impatto del volo che hai appena preso.
    Se puoi, viaggia in treno.

    Ci sono tante piccole cose che puoi fare, per ridurre il tuo peso sull’ecosistema. Differenzia i rifiuti anche in vacanza, ad esempio. Compra solari poco inquinanti. Non portarti a casa la sabbia bianca di quella spiaggia in Sardegna. Assumiti la responsabilità di prenderti cura del pianeta che ami visitare.

  2. D’estate, in viaggio, tendiamo a riempirci di souvenir. I vestiti comprati in vacanza hanno un altro appeal, poco da fare. E sicuramente abbiamo tutti qualche soprammobile inutile in casa, scelto personalmente o donato da qualcuno.
    Tutto questo ha un impatto. Come ogni acquisto.

    Prima di acquistare qualcosa, qualsiasi cosa, fatti tre domande.
    Ho davvero bisogno di questo oggetto?
    Per caso possiedo già qualcosa di molto simile?
    Sto utilizzando i miei soldi per l’acquisto di qualcosa che è compatibile con la mia etica, dal punto di vista dei materiali, del ciclo di produzione, del processo produttivo?

    I nostri acquisti compulsivi provocano danni incalcolabili all’ambiente, premiano produttori iniqui, finanziano cause sbagliate. Per non parlare del peso emotivo di tutte le decine e decine di oggetti che ci circondano ogni giorno, trattenendoci nel passato e obbligandoci a perdere tempo per fare spazio o riordinare.
    Per ricordare una vacanza potrebbe non essere necessaria l’ennesima tazza made in China con il logo del posto stampato sopra.

  3. E allora, se devi fare così tanta attenzione ai souvenir, come conservare un ricordo di quella gita fuori porta? Beh, oltre ad acquistare cartoline, prova a fermare su un taccuino un istante, descrivendolo o disegnandolo. Ti sarà utile nei mesi a venire, perché le belle sensazioni e i bei ricordi sono quello che ci salva nei momenti più bui, quelli in cui tutto sembra impossibile.
  4. Ritrova negli oggetti che ti circondano il passato. Il tuo, quello della tua famiglia. E prova ad allargarlo alla comunità in cui vivi, alla società in cui vivi. Tu, la famiglia, la comunità, la società: sono tutti elementi costituiti da persone. Che vivono un presente, ma hanno anche un passato e, soprattutto, un futuro. Le vite che sono venute prima delle nostre racchiudono il segreto per affrontare il futuro e solo così, ricordando il passato, abbiamo qualche possibilità.
  5. Dedica un piccolo tempo ogni giorno alla contemplazione e al pensiero. Chiudi gli occhi o tienili ben aperti, non importa. La cosa davvero importante è concentrarti su te stesso e pensare, con calma. All’inizio magari ti verranno in mente solo argomenti futili o pensieri esclusivamente rivolti a te. Non importa. Col passare dei giorni scoprirai che tutti siamo in grado di vedere oltre il nostro personale orticello.
  6. Leggi, studia, ascolta podcast, guarda video, serie tv, film, documentari; vai a teatro, al cinema, ai concerti. Tutto è informazione. Tutto è cultura. E senza cultura siamo perduti.
  7. In mezzo a questo magma, però, cerca di individuare la notizia più significativa del giorno appena trascorso. Siamo costantemente bombardati di stimoli e spunti, su tantissimi diversi tipi di media, e spesso rischiamo di restare travolti, al punto da non essere più in grado di classificare le notizie per priorità o importanza.
    Questo ci espone al pericolo di farci sfuggire i fondamentalisti. Potremmo trovarci nella condizione di sottovalutare grossi rischi. Pensiamo alle notizie sulle catastrofi climatiche, annegate tra decine di articoli su temi meno urgenti da considerare. L’estate può essere un buon momento per rivedere le priorità e allenarsi a selezionare.
  8. Anche a causa degli algoritmi dei social network, costruiti per proporci contenuti commercialmente appetibili in base ai nostri gusti, è spesso complicato uscire dalla nostra bolla mediatica.
    Se abbiamo amici con opinioni simili alle nostre a cui siamo abituati a mettere like, probabilmente di fronte alle notizie più significative del giorno leggeremo reazioni simili alle nostre idee, scrollando il wall di Facebook.

    Eppure siamo sicure che avete anche voi quell’amico che la pensa radicalmente all’opposto da voi.
    Quest’estate, una volta alla settimana, andiamo a dare un’occhiata ai suoi post. Oppure impegnamoci a leggere un articolo di un giornale che odiate. E proviamo a individuare almeno un punto di contatto tra voi e chi ha idee contrarie alle vostre. O a farci qualche domanda: e se su questo tema mi stessi sbagliando?
    Magari ne uscirete ancor più rafforzati nelle vostre convinzioni. Ma chi non si mette mai in discussione non può più evolvere. Ed è un rischio concreto, nella società moderna.

  9. L’estate è una stagione nella quale il nostro corpo è più esposto.
    Agli sguardi, certo. Ma prima ancora all’aria aperta. Prova a concentrarti sulle tue sensazioni fisiche, senza collegarle all’estetica del tuo corpo. La brezza del mare è piacevole, sulla pelle. Indipendentemente dalla tonicità delle tue chiappe. Non permettere all’industria della cosmesi, al tuo status sentimentale o al tuo grado di forma di influenzare le tue percezioni sensoriali. Ti meriti di godere la gioia della pelle nuda, a prescindere, sempre e comunque.
  10. Vivi. Goditi questa estate. I giorni di sole e pure i temporali improvvisi. L’odore di crema solare e il fresco delle zone ombreggiate. Inspira profondamente e tieni gli occhi sempre ben aperti: i giorni di riposo ti daranno la forza di affrontare con la giusta consapevolezza l’autunno che verrà.

 

I nostri articoli condivisi tornano a ottobre.
Nel frattempo, però, siamo qui.
E sappiate che abbiamo sempre voglia di chiacchierare con voi.
Buona estate!

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Lo spazio della scrittura

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Ritenzione lirica

DOVE NASCE LA POESIA

Nasce sulle strisce pedonali
turba i passanti
all’incrocio dello sguardo
disarmato del mio sorriso
durante l’epifania.

È figlia delle lenzuola sfatte
al limitare dell’alba
in cui pigra riprendo coscienza;
il padre è il mare, sacro Dio
delle ferite piegate
mare che crea e distrugge.
La madre siede sul fuoco
presiede al traffico del forno
e partorisce il simbolo del pane.

La poesia nasce per strada
mentre vado al lavoro
e al ritorno
si fa largo tra le fermate della metro
per prendere la forma di un balcone
sul mio cuore.

La poesia si raccoglie alle sei
di sera
alle sei del mattino
come il fiore d’un campo di maggio
punteggiato di consapevolezze

e separo il dolore
petalo a petalo;
stille di felicità incommensurabile
di meraviglia
prendono il largo dell’onda del giunco
sulle rive del tramonto
mi lascio benedire
capello per capello
corolla per corolla.

La poesia si raccoglie in terra
dentro la cesta di un mercante
è sporca di salsedine e curcuma
me la prendo

ovunque.

 

La mia poesia non è mai pianificabile.
Non è che posso fermarmi in un posto e scrivere. Non funziono così. È lei che viene a cercarmi: in genere mentre ascolto musica, quando ho lo sguardo aperto a cogliere un punto di vista diverso sulla strada, o sulla stanza in cui mi trovo. Quando meno me lo aspetto, le parole affiorano da sole. Io le scrivo.
Quel che posso fare è aprirmi alla poesia. Darle lo spazio per emergere.
Ecco, lo spazio ha un impatto, nella costruzione di una poesia.
Certi luoghi predispongono più di altri all’ascolto: ci sono ambienti nei quali si è più ricettivi al richiamo della bellezza. Non si tratta necessariamente di splendidi palazzi o di paesaggi instagrammabili. Io, ad esempio, ho sempre trovato più facilmente la poesia nei luoghi periferici.
Nel movimento dal centro alla periferia, persino.
Molte mie poesie, ad esempio, nascono nel tragitto tra casa e lavoro. Corso Francia. Uno dei più eleganti viali della mia città, Torino. Con i suoi 11,75 km complessivi è il corso rettilineo più lungo d’Europa.
Parte dalla centralissima Piazza Statuto e arriva fino a Rivoli, alle pendici della Val di Susa, attraversando ben 3 comuni diversi (Torino, Collegno, Rivoli).
Io percorro una parte del tratto torinese, costeggiato da eleganti palazzi liberty, fino a costeggiare il parco della Villa della Tesoriera e a giungere ad una zona caratterizzata da edifici più moderni.
Molte mie poesie sono nate in corso Francia, nelle mie lunghe passeggiate.
Quasi tutte, però, nel percorso dal centro alla periferia. Mai il contrario.

Non credo sia un caso.
La poesia prende forma nello spazio nel quale riusciamo a stupirci meglio, nel quale siamo più liberi di essere, senza barriere. È lo spazio della spontaneità. Io sono nata e cresciuta in periferia. Ho lo sguardo allevato a palazzoni e piccoli parchi trascurati, in un quartiere dormitorio post industriale.

Inevitabile che nel movimento verso la periferia riesca ad attraversarmi meglio, fino a scoprire gli agganci simbolici della poesia.
Il luogo della scrittura, in ogni caso, è molto importante non solo per i poeti, ma in generale per tutti gli autori. Ancor più per le autrici.
Lascio la parola a Sara, che vi aprirà un orizzonte su questo tema.

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Blufiordaliso

Il luogo in cui si scrive è come uno scrigno.

Può racchiudere inestimabili tesori e desta curiosità, ambizione, invidia.

Come uno scrigno può essere trasportato altrove, anche se talvolta con difficoltà.

Come uno scrigno è prezioso e contiene qualcosa di ancora più prodigioso.

Sta a ognuno di noi costruirselo, anche se spesso si crea piuttosto da solo: intarsiato e ricco di decorazioni, oppure minimale e sobrio.

Lo scrigno rispecchia noi e, giorno dopo giorno, ci accoglie come gemme preziose.

Il posto dove scriviamo è solo nostro, anche se siamo circondati da decine di altre persone. Anche se è un luogo pubblico e rumoroso. Anche se nessuno sa che stiamo scrivendo o che è il nostro luogo.

Il posto in cui le parole trovano, con tanta fatica, un senso messe una dopo l’altra – un senso per noi, almeno – è come una pietra preziosa in cui riflettersi.

È un luogo che trova spazio dentro di noi e un luogo fisico.

Nel posto in cui scriviamo, generalmente, c’è spazio per chi scrive, per gli strumenti di scrittura e per i compagni di viaggio imprescindibili, quelli che durante la pratica della scrittura non possono mai mancare.

Il luogo della scrittura è un luogo importante. È un laboratorio artistico, al pari dello studio di un pittore o di un illustratore; della stanza del pianoforte di un musicista; della camera oscura di un fotografo. In questo posto tutto ciò che si può creare con le parole prende vita, generato da chi scrive: poesie, racconti, romanzi, storie per bambini, sceneggiature, articoli di giornale, saggi. Tutto.

C’è chi scrive immerso nel silenzio; chi riesce a concentrarsi soltanto con gli auricolari e la musica nelle orecchie; chi deve sentirsi in mezzo agli altri e chi vuole restare per forza da solo.

Marcel Proust scriveva sdraiato a letto, con dei grandi pastelli colorati perché quasi cieco.

Kent Haruf si era costruito apposta un capanno in giardino.

Stephen King scrive tutte le mattine e il suo studio è un intero edificio, che ospita anche tutto il suo team.

E le donne?

Per noi trovare un luogo da dedicare alla scrittura è stato un cammino faticoso, come ci ricorda la Storia.

Alle donne era riservata la cura della casa, ma quelle stanze in cui ci si muoveva ogni giorno erano da pulire, rassettare, strigliare e non da utilizzare come luoghi per generare letteratura.

Jane Austen scriveva in salotto, seduta all’unica scrivania di casa. Non lo diceva a nessuno, ovviamente. Non avrebbe potuto. A ogni cigolio della porta nascondeva il suo manoscritto sotto il ricamo che stava realizzando. Pubblicava con pseudonimo maschile, così come avevano fatto Emily, Anne e Charlotte Brönte.

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La scrittura era di proprietà maschile; una donna non avrebbe avuto sufficiente sale in zucca per dire qualcosa di interessante da leggere.

La questione dei luoghi della scrittura per le donne viene sollevata per la prima volta da Virginia Woolf nel suo saggio Una stanza tutta per sé (Mondadori).

La donna entra della stanza – ma a questo punto si dovrebbero tendere all’infinito tutte le possibilità della lingua inglese e interi sciami di parole dovrebbero farsi strada volanti illegittimamente nell’aria fino a prendere vita, prima che una donna sia in grado di spiegare che cosa succede quando entra in una stanza. Le stanze sono così diverse l’una dall’altra; sono tranquille o tempestose; affacciate sul mare o, al contrario, sul cortile di un carcere; con il bucato appeso ad asciugare; o risplendenti di opali e di sete; sono dure come crine di cavallo o soffici come piume – basta entrare in qualunque stanza di qualunque strada perché salti agli occhi tutta quella forza, estremamente complessa, che è la femminilità. E come potrebbe essere altrimenti? Perché sono milioni di anni che le donne siedono in quelle stanze, cosicché ormai le pareti stesse sono intrise della loro forza creativa, la quale ha sopraffatto a tal punto la forza dei mattoni e della malta che deve per forza attaccarsi alle penne e ai pennelli e agli affari e alla politica.

Virginia Woolf, femminista del Novecento e grande scrittrice, morta suicida nel 1941, rivendicava il diritto delle donne di potersi dedicare alle arti e, in particolare, alla scrittura.

Il ruolo della donna non può più essere soltanto quello di moglie e madre: il primo conflitto mondiale ha portato all’evidenza di tutti la centralità sociale della donna lavoratrice; le suffragette in rivolta ottengono il diritto di voto universale; le battaglie più ardue, per il divorzio e l’aborto, si combatteranno qualche tempo dopo.

Sullo stato dei diritti della donna e del femminismo ai giorni nostri occorrerebbe aprire un altro doloroso capitolo, ma in questo articolo Irene e io ci concentriamo sui luoghi della scrittura ed entrambe conveniamo sulla loro importanza, esattamente come Virginia Woolf.

Costruire un proprio spazio, un luogo che ci rispecchi e che contenga tutta la forza necessaria a scrivere è fondamentale. I muri dei nostri luoghi della scrittura non sono confini, anzi. Sono pareti che racchiudono tutta la forza di cui parla Virginia, sono il calore necessario, l’ossigeno creativo.

Ognuno di noi, essere umano che scrive, costruisce il proprio e lo riempie di tutte le cose che ritiene necessarie: penne e quaderni; computer; libri; quadri; tazze di tè; candele; una finestra; un divano; un tappeto; sedie e tavoli; un gatto; un cane; un pesce rosso. Persone; musica; il rumore dei treni; il cinguettio degli uccellini. Le immagini di una tv muta; il sole; la notte.

Tutto ciò che vogliamo per generare creature di parole. Così come ci dice Virginia vorrei chiedervi di scrivere ogni genere di libri, senza esitare davanti a nessun argomento, per quanto futile o vasto vi possa sembrare. A ogni costo, spero che riusciate a entrare in possesso di una quantità di denaro sufficiente per viaggiare e per starvene con le mani in mano, per contemplare il futuro o il passato del mondo, per sognare sui libri e bighellonare agli angoli delle strade e lasciare che la lenza del pensiero si immerga profondamente nella corrente.

Programmare o improvvisare: questo è il dilemma

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Voi programmate tutto nel dettaglio o preferite lasciarvi un buon margine di improvvisazione?

Sto lavorando a una raccolta delle mie poesie e faccio un po’ fatica a tenere insieme tutti gli impegni: lavoro, pagina, libro, il mio matrimonio da organizzare, una serie di impegni personali…Ne ho parlato con Sara di  Blufiordaliso , che invece è una pianificatrice fantastica. Ci siamo dette: perché non dedicare il nostro spazio del mese di aprile a questo tema?

Ecco le nostre riflessioni. Buona lettura!

BLUFIORDALISO

Car* Lettrici e Lettori,

siccome sono sempre stata onesta negli articoli che scrivo e pubblico sul blog, dopo avervi aperto il mio cuore più volte in questo spazio di scrittura condivisa che è l’articolo mensile in collaborazione con Ritenzione lirica, anche in questa occasione non posso esimermi dal rendervi parte della mia maniacalità.

Già, perché di questo si tratta.

Sarà il segno zodiacale (vergine ascendente vergine), sarà l’educazione pragmatica e decisa ricevuta da bambina, a improvvisare faccio una fatica bestiale.

Non solo: io sono una fan delle liste. Sicuramente una delle “fan più attive” delle liste di qualsiasi genere e tipo, per utilizzare un linguaggio tanto caro al mondo Facebook, che della modalità “Lista” ha fatto un suo cavallo di battaglia.

Scrivo liste per organizzarmi la vita (o meglio, illudermi, così, di organizzarla) fin da quando ero bambina. All’epoca erano liste scolastiche: compiti da fare, capitoli da studiare, un planning degno di nota. Le scrivevo su block notes a righe o a quadretti, a seconda di cosa passava il convento.

Poi, adolescente, c’è stata l’evoluzione della specie: un bellissimo blocco per appunti spiralato, con copertina rigida e rigorosamente a righe ospitava le mie liste più disparate.

Inaugurato in quel tempo, non ho più abbandonato il metodo.

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Adesso le mie innumerevoli liste trovano spazio in un’agenda sempre a righe, ma in formato A5, con copertina rigida, ma rilegata e con tanto di elastico a chiusura, ché le pagine stropicciate stropicciano pure l’ordine mentale che le liste hanno il prezioso compito di gestire.

Scrivo liste praticamente per tutto. La lista con il planning settimanale, ovvero tutte le attività che riempiono i 7 giorni moltiplicati 52 settimane, è un elenco di tutto ciò che so o prevedo mi capiterà, dalla spesa al supermercato all’appuntamento dal dentista.

Poi ci sono le molteplici liste dedicate ai libri, ovviamente.

Da lettrice forte e maniacale, bibliofila e bibliomane, non può che esser così.

E allora ecco che ho:

  • la lista dei libri che leggo durante l’anno, suddivisi per mese e con tanto di classificazione a stelline;
  • la lista dei libri che vorrei comprarmi, che provvedo ad aggiornare periodicamente con i nuovi titoli che hanno rapito il mio cuore e depennando quelli che hanno provocato lo svuotamento del portafogli;
  • le liste dei libri che compro: qui si parla al plurale, perché tengo una lista per ogni libreria in cui mi reco e su ciascuna scrivo titolo, autore, prezzo e pure sconto ricevuto, quando c’è;
  • la lista dei libri da leggere, con una pseudo programmazione di massima;
  • la lista dei libri che tratto nei vari gruppi di lettura nel corso dei secoli;
  • la neo inaugurata lista inerente la biblioterapia umanistica.

Ecco, invece, le liste della donna forte e determinata, quella tutta d’un pezzo:

  • la lista delle spese con carta di credito. In realtà sullo smartphone ho l’applicazione che mi dice in tempo reale per filo e per segno cosa spendo, quando e dove, ma il cartaceo ha il suo fascino e io non riesco a resistere;
  • la lista delle entrate e delle uscite sul conto corrente, perché una brava casalinga disperata mixata a donna lavoratrice come me deve sempre sapere quanto in basso cada mensilmente il proprio conto in banca;
  • la lista dei regali di Natale, fondamentale. Ogni anno una nuova lista, da confrontare con le liste degli anni precedenti, ovviamente conservate gelosamente. La mia prima lista di regali natalizi risale al 2004, fate un po’ voi.

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Poi ci sono piano e calendario editoriale, strutturati in liste e in continuo aggiornamento, dedicati al blog e ai social. Ammetto che queste sono ancora un po’ ostiche e difficili da rispettare, sigh.

Prima di ogni viaggio c’è la lista delle cose da mettere in valigia, preceduta dalle varie ipotesi di outfit declinate giorno per giorno. (Per le vacanze estive dello scorso anno ho pure fatto il disegnino dei vari capi di abbigliamento, per farvi rendere conto della paranoicità della questione.)

Infine, prima del Salone del Libro di ogni anno, c’è la LISTA DELLE LISTE.

Una sola lista che racchiude in sé tutto lo scibile umano in materia letteraria, integrando, per ogni giorno di apertura:

  • elenco degli stand da visitare, con nome dell’editore e posizione sulla mappa
  • elenco dei titoli da visionare presso ogni casa editrice
  • elenco delle domande da porre a ogni editore
  • elenco degli eventi a cui partecipare dentro il Salone
  • elenco degli eventi a cui partecipare fuori il Salone, ovvero attinti dal programma del Salone Off
  • elenco delle persone da incontrare, con relativi orari

Immaginatevi, pertanto, una me esagitata percorrere ogni giorno chilometri tra un padiglione e un altro, armata di trolley, almeno tre borse e lista alla mano. Un’avventura unica.

Insomma, a questo punto credo vi siate fatti un’idea del livello di maniacalità.

Programmare è un mantra, un’ossessione quasi, a cui slegarsi è davvero difficile.

Organizzare tutto il possibile è il modo che conosco per avere le idee chiare in testa.

Ma attenzione, le cose più belle spesso capitano per caso, improvvise. E sono magnifiche. Forse per questo continuo a scrivere liste: per non smettere mai di meravigliarmi ogni volta che una cosa bella capita inaspettatamente e mi lascia senza fiato

RITENZIONE LIRICA

LA PORTA LASCIATA APERTA

Disciplinavo i miei fremiti
per seguire le indicazioni
e avevo contenuto il mio tempo
entro i margini di un’agenda

ma una vecchia mi trovò
alla corsia dei detersivi: aveva
una storia per me, una genealogia
di denti, sguardi, ricordi scombinati;

per lei mi son fermata ad ascoltare.
Ho perduto mezz’ora. Alla cassiera
lasciai altri minuti: la conoscevo,
mi ricordava dalle altre vite passate
– Stai meglio coi capelli lunghi. – disse
mi rese uno sguardo che avevo perso
per strada. Tornai a casa più giovane.

Poi venne Gesù Cristo:
bussò alla mia porta ed era mio fratello
aveva fame e sete, gli serviva ascolto
era solo in mezzo agli ulivi
ed era un ospite
un’amica lontana
aveva gli occhi di mio nonno
non sapeva mentire.
Venne Gesù Cristo in persona
e non ebbi il cuore di tener fede ai patti
scordai i buoni propositi
e lo lasciai entrare, versai da bere, l’orecchio
si fece ventre, impastai un pane.

Alla fine del giorno qualcosa era scaduto
avevo lasciato indietro molti piani
sui miei programmi ero in ritardo mostruoso.
Feci un sol sonno, di pace:
per fortuna un vento imprevisto
era giunto a salvarmi
dal capitalismo del sentire.
Lascio sempre la porta aperta alla vita.

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Ecco, io sono decisamente più caotica di Sara.

Ci provo anche, a farmi dei programmi di massima, giuro. All’inizio di una nuova attività, ad esempio, presa dallo slancio di entusiasmo iniziale. Butto giù la mia to do list e cerco di attenermici.

Allenarsi, ad esempio. Sì, dopo il lavoro da lunedì mi alleno un’ora a casa, un giorno braccia, un giorno gambe, un giorno addominali. Ho un piano.

Solo che una può anche pianificarsela, la vita: lei ti spiazza lo stesso. Ti prende in contropiede. Proprio quell’ora in cui dovevi allenarti, ad esempio, ricevi quella chiamata della tua migliore amica che ha una storia da raccontarti. Inizia a parlare e ti accorgi che avevi un sassolino da toglierti, un pensiero represso, che non sai come ma con Erica è venuto a galla, ti è sfuggito di bocca prima che potessi elaborarlo compiutamente e ti sei accorta che sì, ecco cosa manca.

E nel frattempo ti è venuta un’idea. Quindi quando attacchi butti giù due righe. Ma neanche il tempo di iniziare ed ecco, il telefono squilla di nuovo. E’ tuo fratello, ha bisogno di ascolto. Eccomi, sono qui.

Si fanno le sette, ora di cucinare. Vediamo cosa c’è in frigo? Poco, è giovedì.

Spesa veloce. E lungo la strada una farfalla, un tramonto particolarmente fotogenico, un incontro casuale con qualcuno che non vedevo da un pezzo…

Tutto questo per dire che non sono contraria alla pianificazione in sé: è sempre utile riordinarsi le idee.

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Nella consapevolezza, però, che ci si sta muovendo nel mondo delle idee e delle aspirazioni ideali. Il controllo è un’illusione: siamo esseri finiti, frangibili, distruttibili.

Alla fine la realtà ci coglie sempre di sorpresa. E meno male: se non lasciamo la porta aperta all’imprevisto, rischiamo di avvilupparci su noi stessi. La luce, la comprensione delle cose, passa per la relazione con l’altro e dunque, inevitabilmente, entra dalle crepe della nostra rigida illusione di controllo.

Non pianificare troppo è anche una mia segreta ribellione alla logica capitalista dell’accumulo: di traguardi raggiunti, di obiettivi prefissati, di ricordi. Quasi come se fosse un profitto, anche la nostra vita rischia di trovarsi incasellata in una partita doppia: Dare/Avere. To do/Done.

Io mi rifiuto. Il valore delle mie esperienze è relativo, non basta accumulare una tessera punti per farsi trovare preparati. Preferisco allenarmi ad essere flessibile e adattabile alle vicende della vita.

Ogni tanto dobbiamo perdere qualcosa, per poter proseguire il viaggio più leggeri e continuare a guardare con stupore alle esperienze del vivere.

Primavera, rinascita e coraggio

spring time_3.jpgE’ di nuovo il terzo giovedì del mese, e io e Sara di Blufiordaliso ci siamo prese il nostro spazio per celebrare questo giorno: è il 21 marzo, inizia la primavera!
Riprendendo il contatto con la terra e le radici, e provando a rendere questa stagione un tempo per sbocciare.
Come? Con la narrativa e la poesia, gli strumenti che più amiamo.
Iniziamo!

RITENZIONE LIRICA

La primavera è in pericolo.
È un pensiero martellante di cui non riesco a liberarmi, in questi giorni.
Sarà che quest’anno l’inverno ce lo siamo perso per strada: i fiori sono sbocciati con oltre un
mese di anticipo. Fa caldo. Molto caldo. Troppo caldo.

Signori, inutile che ce la raccontiamo: queste potrebbero essere le ultime primavere che
vediamo sbocciare. Il clima sta cambiando, è sotto gli occhi di tutti. E non ce la faccio, a
godermi questa bellezza senza avere paura.
È passata una settimana scarsa dallo sciopero mondiale contro il cambiamento climatico del 15 marzo. Io ho partecipato a Fridaysforfuture con una poesia, che vi riproporrò alla fine di queste righe. Ma non basta. Servono gesti concreti, una presa di coscienza dell’insostenibilità del nostro stile di vita. Un’assunzione di responsabilità.
Dobbiamo sostenere politici che si impegnino davvero per l’ambiente. Non abbiamo tempo: la politica deve darci risposte, dobbiamo pretenderle.
Ma non basta neanche questo. Come singoli, abbiamo l’imperativo morale di pensare
all’impatto delle nostre scelte di vita sul pianeta.
Io come individuo cerco di fare la mia parte ogni giorno, consapevole che potrei fare di più.
A primavera la natura rinasce: tocca anche a noi rinascere, come vi racconterà Sara tra poche righe, e sarebbe bello ripartire rendendo più sostenibili le nostre abitudini.
Quindi oggi, prima di lasciarvi la mia poesia, voglio appuntare qui con voi 10 gesti concreti, facili, che io riesco ad attuare ogni giorno senza difficoltà e che possono ridurre il nostro impatto sull’ambiente.
– Mangiare meno carne: due o tre porzioni a settimana sono sufficienti.
– Portare sempre con sé sacchetti di stoffa per non usare quelli di plastica.
– Non utilizzare piatti e bicchieri di plastica.
– Comprare frutta e verdura di stagione, locale, magari al mercato da un rivenditore di fiducia e possibilmente sfusa: vi accorgerete che costa molto molto meno e dura anche molto di più!
– Evitare le confezioni monoporzione con tanti imballaggi: anche questa scelta vi porterà a risparmiare moltissimo.
– Spostarsi a piedi o in bici il più possibile: costa meno della palestra e consente di non
inquinare.
– Sostenere organizzazioni che piantano alberi, come Treedom. È un bellissimo regalo da fare alle persone che ami o a te stesso e contribuisce a neutralizzare le tue emissioni. Io cerco di piantare almeno 3 alberi all’anno, è poca cosa ma meglio di niente.
– Fare pochi viaggi aerei. Inquinano tantissimo. Io sono diventata consapevole da poco di
questa forma di inquinamento, non viaggiando in aereo per lavoro ho deciso che cercherò di non prendere più di 1 volo A/R all’anno (ma è un inizio).
– Usare detersivi e saponi ecologici. Sono disponibili in quasi tutti i supermercati, costano all’incirca come quelli normali e la pelle ringrazia.
– Non comprare più vestiti se non ce n’è un reale bisogno. Abbiamo armadi pieni di abiti che non utilizziamo.

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Vi lascio alla mia poesia, che non ha un titolo.
Gli alberi di questa poesia hanno rami spogli: tutto il contrario della rigogliosa primavera che sta sbocciando sotto i nostri occhi.
Preserviamola. Facciamo in modo che non diventi qualcosa da raccontare ai nostri figli.

 

Umanità degenerata
rapace – il peso di lobotomie:
nutrire eredi di terreni inariditi,
di rami rinseccati, spezzati dal vento
di deserti sterili, privati
delle radici, depravati.

Il mare incombente
reclama la vita
brodo da cui emergemmo vermi
e poi iguane
e infine uomini.
Attendere il mare
– che sommerga le colpe;
o invece, un sussulto.

Chi altro dovrebbe battersi
per il nostro futuro?

BLU FIORDALISO

Il terzo giovedì del mese di marzo quest’anno corrisponde al 21, ovvero proprio al giorno in cui, come ci hanno insegnato a scuola, cade l’equinozio di primavera.
L’articolo condiviso con Ritenzione lirica, quindi, questo mese non può non raccontare di
primavera.
In realtà, quella del 21 marzo è una data convenzionale, poiché astronomicamente parlando, l’equinozio può cadere ogni anno tra il 19 e il 21 marzo.
Il 2019 vede l’inizio della primavera il 20 marzo alle 22:58, ma io sono affezionata alle
reminiscenze scolastiche e, in fondo, al 21 marzo mancherebbero soltanto 2 minuti.
Una nuova primavera è giunta a noi, dunque. Felici?
Il mondo pare ancora dividersi a ogni cambio di stagione: c’è chi esulta gioioso per il sole, il tepore e le vacanze sempre più vicine e chi, invece, si sente già svenire dal gran caldo e rimpiange tristemente i week end sulla neve.
Io quest’anno ne sono contenta.
I primi due mesi dell’anno sono stati difficili e anche marzo non è decisamente cominciato sotto i migliori auspici: per questo non mi resta che sperare in una nuova stagione, in un cambiamento di temperature che si porti appresso pure un po’ di sollievo dalle vicissitudini della vita.
Al tema della primavera, pertanto, abbino la rinascita e, perché no?, anche il coraggio.

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Hanno coraggio, ogni anno, i bulbi dei nostri giardini, ad esempio. Traggono forza dalla loro linfa più nascosta nel cuore dell’inverno e danno nuovamente inizio a un cammino che porterà una nuova pianticella a spuntare, scoprire la luce, fiorire.
Non sanno esattamente cosa li aspetta in superficie, ma la forza della natura vale sopra tutto.
Talvolta tocca fare esattamente così anche a noi.
Me ne sto accorgendo in questo periodo di acqua alla gola e tanto annaspare: dopo essere andata giù, la spinta naturale mi avvia alla risalita. Quindi, in teoria, una luce in superficie dovrei vederla pure io.
I libri, come saprete, non mi abbandonano mai e anche in questi momenti mi sono venuti in soccorso.
Una delle mie recenti letture risponde pienamente ai significati puri e lati di primavera, rinascita e coraggio: si tratta di La misura eroica di Andrea Marcolongo (Mondadori).
Questo libro è uscito più o meno un anno fa e stava sui miei scaffali, ad aspettarmi.
Catturata dalla copertina, dal profumo delle sue pagine e dalle meravigliose parole della sua autrice, che seguo ogni giorno sui social, non mi ero ancora decisa a leggerlo veramente.
Ogni tanto lo toccavo, lo sfogliavo, leggevo qualche riga. Sentivo che quelle pagine
racchiudevano qualcosa di potente, di estremamente delicato eppure dirompente, che mi
avrebbe toccato nel profondo.
E così è stato. Al momento giusto.

C’è stato un giorno, un paio di settimane fa, in cui mi sembrava non ci fosse soluzione per niente. Mi sembrava di vivere in un mondo dai soli giorni bui, dove io ero sempre io, mai migliore e sempre peggiore.
Quella sera, dopo essere saltata da un libro all’altro riservando a ognuno giudizi impietosi che non si meritano sicuramente, ho preso questo libro dalla libreria e l’ho portato in camera da letto, dove sono crollata dopo una giornata delirante.
Spente tutte le luci di casa tranne l’abat-jour sul comodino, mi sono rannicchiata sotto le
coperte e ho accarezzato per un po’ la copertina liscia e rassicurante di questo libro: in foto, un portachiavi rosso, a forma di cuore, con una chiave agganciata. Avevo letto in un’intervista ad Andrea Marcolongo che quel portachiavi le era rimasto nell’anima: fotografato e parte di una mostra, a colpirla era stata la frase scritta sopra Abbiamo un cuore per chiunque arrivi.

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Se un cuore c’è davvero per chiunque, se lei (una donna praticamente mia coetanea) ha potuto trovare in Sarajevo e nella Bosnia Erzegovina una nuova casa, allora, forse, una speranza di nuova luce può esserci anche per me.

Ho cominciato la lettura. Praticamente subito ho afferrato i segnalini adesivi – stavolta verdi –, mettendoli ovunque. Erano tanti i passaggi che volevo marcare. Talmente tanti e talmente belli che in breve ho impugnato pure la matita e di lì è stato tutto un sottolineare, fino alla fine.
Raramente sottolineo i libri che leggo. Appongo adesivi, scrivo su post it e biglietti che lascio tra le pagine; mi annoto tratti salienti e citazioni in vari quaderni, ognuno per un uso diverso che posso fare della lettura nella mia vita. Ma quasi mai sottolineo.
Stavolta, invece, non ne ho potuto fare a meno. È stato un riflesso incondizionato.
In questo libro Andrea Marcolongo conduce il lettore attraverso tre piani narrativi.
Affronta il tema del viaggio, in particolare il viaggio per mare, aprendo ogni capitolo con le frasi tratte da un libercolo di cui si è innamorata How to Abandon Ship, un piccolo manuale di sopravvivenza in mare del 1942, che aveva trovato da un rigattiere del Kent.
Parallelamente, non abbandona il suo amore per il greco e il mondo classico, raccontandoci il viaggio per mare degli Argonauti, ovvero narrandoci le vicende di Giasone e dei suoi compagni sulla nave Argo, alla ricerca del mitico vello d’oro, così come descritto nel poema epico Le Argonautiche di Apollonio Rodio.
Infine, ma chiaramente non ultimo per importanza, ci parla della sua vita e di come il viaggio, il mare e la definizione che i Greci davano di eroe siano stati per lei una chiave di volta.
Eroe, per i Greci, era chi sapeva ascoltarsi, scegliere se stesso nel mondo e accettare la prova chiesta a ogni essere umano: quella di non tradirsi mai. (p. 7)
Eroe non è chi compie gesta valorose portando a casa sempre la vittoria: eroe è chi vive, chi agisce secondo il proprio essere e non importano tutti i fallimenti in cui incapperà.
Tutti sbagliamo e tutti ricominciamo dagli errori: non per questo siamo meno eroi di chiunque altro. Vincere e compiere gesta prodigiose non classifica le persone come eroi.
Leggendo questo libro ho capito di essere anche io, nel mio piccolo, un eroe.
Perché vivo ogni giorno. Perché spesso subisco impotente, ma ho ben salde dentro di me le radici di ciò che è importante.
Le stesse che, come per i bulbi di primavera, danno la spinta vitale allo scorgere la luce tiepida di un nuovo 21 marzo.

You are beautiful

Siamo a dieta.
Tutte e due. Sia io che Sara.
E di cos’altro potremmo parlare, questo mese? Quindi eccoci qui. Se volete una chiave di lettura diversa sul tema, un po’ letteraria, siete nel posto giusto.

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Ritenzione lirica
Della mia dieta, non ve ne parlo neanche.
Non è un regime alimentare da fame, son sincera. Certo, devi fare attenzione a molte cose. Ai condimenti, alle grammature. È un po’ vincolante se devi invitare qualcuno a cena o se mangi spesso fuori. Però è questione di abitudine e io, piano piano, ci sto prendendo la mano.
Con voi voglio parlare del significato di questa dieta per me. E lo voglio fare con una poesia.

A DIETA
Non ci so stare:
le Irene che sono non le so abbandonare.
In questo grande corpo c’è posto per tutte:
per le donne che non sono stata – ma avrei tanto voluto;
per quelle che la vita ha spazzato via d’un soffio;
per le mie reincarnazioni; per gli anni passati,
per la figlia che non sono più.
Col tempo, tuttavia, non mi ritrovo:
non so dove comincio
tra le vecchie pelli ammassate
in mezzo a cosce un po’ cascate
alla pancia e alle guance che mi sono spuntate.
Nel morbido tepore di cose già vissute
non ho più il posto per il presente,
non so più correre:
indosso troppi vestiti.
Voglio venirmi a cercare:
imparerò ad ascoltare,
a nutrire, invece che a mangiare,
a curare un corpo che voglio occupare
io sola, tutta quanta,
adesso.

Riuscirò a lasciarmi andare,
mi saprò demolire e poi rifare,
a costruirmi – nuova,
libera dalle mie macerie.

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Blufiordaliso
Che tema difficile questo mese!
Complicato, spinoso, quasi tabù per me.
Quando Irene mi ha detto Sono a dieta, sul serio. Ne parliamo il prossimo mese? io le ho subito risposto di sì.
Aggiungendo Anche io sono a dieta.
È la verità, anche io sono a dieta. Da anni.
Sì, perché il mio fisico non è mai stato longilineo, per così dire. L’aggettivo magra non è mai stato associato alla mia persona, così come esile, secca secca o minuta.
Io sono sempre stata quella un po’ rotonda, robusta oppure direttamente grassa. A scuola ero la cicciona secchiona. Dopo, acquisendo la maturità dei vent’anni, dei venticinque e adesso anche dei trenta, sono quella lì … e segue il gesto con i gomiti allargati, che sta a significare tutto tranne una taglia 42.
L’argomento dieta, dunque, è stato molte volte all’ordine del giorno.
Nascosto, inascoltato, non affrontato per qualche tempo, magari. Ma sempre presente.
I tentativi sono stati molteplici, così come i fallimenti. Ne sono, attualmente, la dimostrazione vivente.

Funzionò una volta soltanto, tre anni fa, quando persi parecchi chili, che poi riacquisii nello stesso tempo che avevo impiegai a perderli.
Il mio corpo ne risente, ovviamente. Ne ha risentito prima, durante e dopo l’unica dieta che diede risultati.
È evidente che, nel mio caso, si tratti di un problema articolato, legato a molti altri aspetti.
A maturare questa consapevolezza ho impiegato anni e non se sono ancora del tutto venuta a capo.
Mangio è innegabile, i chili arrivano da lì. Sono golosa, è dimostrato.
Ma c’è dell’altro che si lega a quello che molte riviste spesso paventano come metabolismo lento.
Ci sono delle motivazioni strettamente mediche, che si affrontano pian piano con una équipe specializzata. Le cause del sovrappeso e dell’obesità risiedono solo in parte nel corpo e si devono cercare anche dentro di sé.
La cosiddetta fame nervosa, ad esempio, si manifesta davanti ai nostri occhi come un’abbuffata o l’accanirsi su un determinato cibo che pensiamo ci faccia stare meglio; in realtà la causa risiede dentro di noi, la spinta a mangiare è psicologica.
Cercare di risolvere le questioni che ci divorano dentro, paradossalmente, ci farà divorare meno cibo, anche se il percorso è lungo, non sempre consapevole, duro, talvolta estenuante.
Rimane, poi, l’argomento corpo da affrontare. Stare meglio dentro è un grandissimo passo, il più importante e carico di benefici. Ma il corpo rimane ed è la parte di noi immediatamente visibile agli altri.

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Recentemente ho letto un articolo di Gaia Manzini uscito su L’Espresso.

Il titolo del pezzo era Cicatrici che rendono felici.

L’autrice comincia dicendo: IL CORPO È INEVITABILE. Il corpo siamo noi.

Io, che solitamente rifuggo nei giornali tutto ciò che viene scritto sulla fisicità, sono stata catturata da queste parole e ho letto tutto con grande avidità.

Il corpo danneggiato e riparato è al centro delle sue riflessioni, legate a nuove uscite editoriali sugli scaffali delle librerie italiane proprio in questi giorni. E non si tratta di manualistica o di ridicole pubblicazioni di self help. Gaia Manzini ci parla di romanzi, di storie scritte e che possiamo leggere, racchiuse da copertine nella maggior parte dei casi anche molto belle.

Storie in cui il corpo sta male, subisce battute d’arresto e viene rattoppato grazie alla medicina.

Poi il recupero spetta tutto al protagonista. Perché il recupero è mentale, psicologico, trova le forze nel più profondo di noi. Come accade a Elena, la protagonista di La memoria della cenere di Chiara Marchelli (NN Editore), ad esempio.

Questo libro mi chiamava, ancor prima di uscire. L’ho letto d’un soffio e adesso ho tanti piccoli, nuovi tasselli che rinforzano contenuto e contenitore.

Già, perché il lavoro è duplice, come vi ho detto prima.

Facciamo di tutto per guarire il male che ha causato una rottura del contenitore poi, durante la convalescenza, guariamo anche le ferite del nostro essere più interiore, mentre ci riappropriamo pure del corpo.

Il corpo non può essere abbandonato, né lasciato a se stesso per troppo tempo. Non può essere accantonato né maltrattato a lungo.

Il corpo è ciò da cui si comincia e ciò con cui si finisce.

Mangiare troppo o troppo poco non è nient’altro che plasmare il nostro corpo nel vano tentativo di plasmare ciò che abbiamo dentro.

La realtà è che dovremmo sforzarci di restare in equilibrio quanto più possibile, senza dimenticarci che il benessere del corpo è irrimediabilmente legato a quello del nostro io e viceversa.

Quando l’equilibrio non c’è, qualcosa inevitabilmente ne risente. Sta a noi capire cosa e trovarne uno nuovo.

È un lavoro immane, durante il quale dobbiamo prima scendere negli abissi per poi risalire verso una pallida luce. Dopo rimarranno su di noi delle cicatrici, dentro e fuori. Dei segni che ci ricorderanno in ogni momento quello che è stato, ma anche quello che abbiamo fatto per cambiare.

Il corpo non sarà mai uguale per più di due giorni: il nostro contenitore viene plasmato dalla vita, dagli agenti esterni, da noi stessi. E il contenuto lo seguirà a ruota, imprescindibilmente.

La dieta è il mezzo per rimettere in sesto il corpo, ma va fatta con criterio, deve essere un percorso serio, durante il quale si è aiutati e supportati (da una figura medica, dalla famiglia, dagli affetti).

La dieta è anche un percorso psicologico, perché inevitabilmente impatta sul nostro contenuto.

Per questo occorre essere forti nella propria determinazione, del tutto individuale, ma mai soli nel praticarla.

Perché il nostro corpo ci dà dei segnali in ogni momento. E coglierli correttamente è la chiave per un equilibrio ottimale.

Quando affrontiamo percorsi impegnativi come questi, quindi, non dimentichiamoci mai del nostro coraggio e della fatica che facciamo.

E soprattutto non dimentichiamoci della bellezza, la nostra per una volta.

You are beautiful!

Elogio della semplicità

Come ogni terzo giovedì del mese, io Sara di Blufiordaliso ci siamo prese un momento per esplorare insieme un tema. Stavolta toccava proprio a lei scegliere quale: mi ha suggerito di parlare dell’importanza della semplicità.

Allora non aggiungo complicazioni e vi lascio semplicemente le nostre parole. Sperando che questi attimi sottratti alla frenesia del quotidiano per leggerci possano riempirvi di consapevolezza, che possa essere un momento di riscoperta del sè, semplice e intenso, come è stato per noi scrittrici.

La palla a Sara.

BLUFIORDALISO

Durante le festività natalizie appena passate non mi sono fermata un attimo.

I giorni di vacanza sono stati soltanto quelli segnati in rosso sul calendario, occupati dagli impegni familiari e di circostanza che rendono uniche le nostre italianissime feste.

Ci sono stati gli auguri di rito, gli scambi di doni, le mangiate, la tombola con i premi in noccioline e mandarini e le urla dei bambini.

Tutto nella norma, dunque. Tranne, forse, per il fatto di vedere gli altri intorno a me avere qualche giorno di calma, di stop.

Io non ho fatto vacanze, quindi, ma ho sfruttato i benefici effetti di quelle degli altri: il traffico molto minore, i parcheggi liberi e la vista di persone mediamente più sorridenti rispetto al solito.

E questo si è tradotto, inaspettatamente, in una profonda riflessione personale, che mi ha lasciata malinconica, è vero, ma più ricca interiormente.

Vedere le persone intorno a me libere da impegni lavorativi, godersi i giorni di vacanza con la lentezza della colazione al bar all’ora di pranzo e delle passeggiate sul finire del pomeriggio, mi ha tuffata in una dimensione di pensieri come Stai tranquilla, non sta succedendo nulla.

Queste persone erano in vacanza, le loro attività lavorative momentaneamente sospese, e il mondo non stava precipitando, crollando, smaterializzandosi.

Calma. Lungo respiro. I momenti di riposo devono far parte della vita di una persona. Sono una conquista, dal punto di vista lavorativo.

Mi sono tornati in mente i capitoli del libro di storia delle scuole medie, quelli che parlavano della rivoluzione industriale inglese e delle condizioni in cui erano costretti a lavorare gli operai, con turni massacranti, riposi inesistenti, vacanze nemmeno lontanamente contemplate.

Eppure, un po’ di amaro in bocca rimane ancora oggi. Nonostante le lotte, i diritti, le leggi, per un lavoratore, spesso, conservare il proprio posto di lavoro è ancora una condizione difficile per la quale si corre, ci si spreme, si combatte con le unghie e con i denti in ogni momento.

E questa situazione, sovente, si acuisce anche di parecchio quando si ambisce a conservare un posto di lavoro che, nella media, reputiamo migliore di altri.

Ecco, i miei pensieri si sono concentrati proprio su questo punto.

Ha senso puntare sempre più in alto, caricarsi sulle spalle un peso eccessivo, cercare a tutti i costi di realizzare qualcosa nella vita?

Credo che una spinta di questo tipo possa, inizialmente, essere molto positiva. Sintomo di un benessere psicofisico che vorremmo estendere anche al di là di noi stessi, ci prodighiamo e cerchiamo di andare sempre avanti, ponendoci obiettivi e tentando il tutto e per tutto per realizzarci.

Solo che, a lungo andare, questa corrente può portare qualcuno di noi alla deriva.

Parlo dei perfezionisti, di quelli mai contenti e degli eterni insoddisfatti che a testa bassa non si lamentano e vanno avanti. Di quelli che si piacciono assai e di quelli che proprio non ce la fanno senza qualche riflettore puntato su di sé.

Il troppo stroppia, gli anziani lo ripetono spesso. Ma i giovani forse questo concetto non lo hanno mai assimilato.

Mi ci metto pure io, in mezzo. Sono sempre vissuta in tempo di pace, non ho mai patito la fame, sono circondata di comodità. Non nuoto certamente nell’oro, ma nemmeno posso dire di vedere insoddisfatti i miei bisogni primari e pure qualcuno dei secondari.

Mi reputo una persona normale, eppure la corrente di cui sopra ha portato alla deriva anche me.

Io appartengo alla categoria dei perfezionisti. Nulla va mai abbastanza bene; spesso mi ritrovo ad aderire pienamente al motto Chi fa da sé, fa per tre. Credo di essere anche abbastanza generosa. Quindi, puntualmente, mi sobbarco pure qualcosa che spetterebbe a qualcun altro.

Insomma, la corrente mi ha proprio travolta, altroché. E me ne sono accorta in questi giorni di pensieri e di vacanze altrui. Dopo anni, constato inorridita.

All’inizio è stato il panico.

Il momento topico, della completa realizzazione di questo pensiero è stato in auto, tornando a casa, giustappunto, dal lavoro.

Ero in tangenziale, terza corsia. La macchina correva e io mi sono resa conto di avere soltanto questa vita. E di non sapere nemmeno per quanto.

Cosa sto facendo? mi sono detta. E per la prima volta la risposta non è più stata Non abbastanza. Per la prima volta mi sono risposta Forse sto facendo troppo.

Ho cercato di calmarmi, sono rientrata in seconda corsia, poi in prima e di lì, a casa. Il batticuore è passato. Mi sono costretta a pensare a qualcos’altro, un po’ come dopo un brutto sogno.

Ma questa sensazione mi è rimasta addosso e il giorno dopo è diventata una nuova consapevolezza.

Non credete che io lo sapessi già. Consciamente intendo. Assolutamente no.

Lo so da pochissimo, è stato un processo durato più di dieci giorni.

Poi, con Irene ci siamo sentite per organizzare la pubblicazione di questo articolo e io le ho proposto Perché non parliamo di semplicità?

Sentivo di dovermi questo articolo. E di doverlo anche voi.

Chi mi segue su Blufiordaliso e sui vari social media sa che, generalmente, appaio sorridente e sprizzante energia da tutti i pori. Ebbene, sappiate anche che lo faccio per voi, per darvi la carica e, così facendo, darla pure a me stessa.

Ma, da qualche giorno a questa parte, i miei sorrisi e la mia energia hanno una fonte nuova: la consapevolezza della semplicità.

Adesso so che non devo per forza sempre puntare più in alto che posso.

So che non smetterò mai di cercare di migliorarmi (in fondo sono una perfezionista, ricordate?), ma so anche che lo farò rispettando un po’ di più la mia vita su questo pianeta.

E se questo dovesse tradursi in un lavoro semplice e umile, sarò in pace con me stessa.

Perché penso che la semplicità possa migliorami la vita. Renderla migliore a tutti.

La semplicità sta nelle piccole cose. Questo lo dicono non soltanto gli anziani, ma tutti coloro che vogliono stupire.

Secondo me in pochi ci credono. Ma io ho deciso di sì, che ci credo.

E ho deciso ancora un’ultima cosa: alla semplicità voglio abbinare la normalità.

Che si traduce in evitare di strafare solo per piacerci un po’ di più e per colpire gli altri.

Uno dei miei buoni propositi per il 2019, dunque, sarà quello di cercare la semplicità e di imparare a conviverci e a farla mia.

Perché, talvolta, ciò che ci fa stare bene è proprio qui, accanto a noi.

Ed è incredibilmente semplice e normale.

RITENZIONE LIRICA

Quando Sara mi ha proposto di parlare di semplicità, ho accettato con gioia.
E a proposito di semplicità: oggi scriverò molto poco. Sara ha già detto tutto e la semplicità, a volte, è anche fare un passo indietro e non aggiungere troppe parole inutili

Sapete come nascono i nostri pezzi? Ogni mese, una delle due propone un tema. Ciascuna scrive la sua parte e poi le assembliamo insieme.
Sto scrivendo subito dopo aver letto le parole di Sara, e sorrido.

Sorrido perché sono molto felice per lei: ha maturato una consapevolezza importante. La vita scorre.

Io ho vissuto alcune esperienze impegnative, che mi hanno insegnato molto presto ad apprezzare il valore della semplicità.
Ormai sapete, ho perso mia madre a causa di un tumore. Per oltre un anno, ho frequentato con una certa assiduità i reparti oncologici degli ospedali. Lì ho imparato tanta leggerezza.

Sì, lo so, sembra una follia. Invece è proprio così. Non puoi fare a meno della leggerezza, quando sei costretto a convivere con l’idea che potrebbe essere l’ultimo giorno della tua vita.
Sul serio, provate a pensarci. Finisce, questo gioco. Per noi, per chi amiamo. Vivi, non ne usciamo.
E allora possiamo davvero permetterci di farci travolgere dagli eventi? No. Non è possibile. Dobbiamo imprimere una direzione alle nostre giornate, darci uno scopo. E imparare a godere delle piccole gioie.


Io ho assistito a uno spegnimento lento. Mi ricordo quando mia madre ha guidato per l’ultima volta. Non lo sapevamo, ma era proprio l’ultima volta. Era così felice, al volante. Si è goduta ogni minuto di quel tragitto: il sole, la strada, il rombo del motore, le mani sul volante. E poi non ne ha più avuto la possibilità.
E la sua ultima tazza di tè? Quella non me lo ricordo. Un giorno, però, non è più riuscita a bere. Era arrivata ad un punto della malattia in cui poteva alimentarsi soltanto artificialmente. Hanno un valore anche le piccole cose scontate e banali, come sorseggiare qualcosa di caldo, magari intingendo un pasticcino. Io l’ho scoperto così.

Per questo dobbiamo goderci ciò che siamo, ciò che facciamo. Anche quando non è perfetto. E assaporare quei piccoli momenti di pace che ci si presentano tra un impegno e l’altro. Sono tanto preziosi.

A proposito di pace. Ripubblico una mia poesia di qualche tempo fa, che mi è tornata in mente leggendo il racconto di Sara.
Un abbraccio e al prossimo mese!

Lo spirito del Natale

Christmas

A un passo dal Natale, ecco il nuovo articolo condiviso con Blufiordaliso.
Questo mese non ci sono troppe introduzioni. Leggerete del Natale così come Sara e io lo viviamo.
Auguri!

                                                    Ritenzione lirica

BIANCO

La mia luna d’inverno
sorge presto, nel cuore del giorno:
ha un lato oscuro
e un volto di luce.

È Natale sui monti della luna,
nell’aria siderale questa sera
risuonano canti
fra crateri di ghiaccio.

Non sono il buio.
Non sono la luce.
Cresco fino a svuotarmi
per risorgere
nuovamente intera.
Tienimi a mente
nella forma mutante
equilibrio di opposti.

Questo Natale verrò ad aprire:
al riso, al vuoto
a ciò che è pieno
al mio pianto cupo
al vento che porta il sereno,
benedetto sia il motore, il freno.
Il mio cuore è un moto,
un ciclo che non si lascia appiattire.

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Questa poesia nasce un pomeriggio di metà dicembre, mentre sto impacchettando regali, sulle note di un’immancabile playlist jazz di quelle tanto adatte a creare atmosfera.

Io amo le feste, le luci, preparare con cura gli addobbi, scegliere con attenzione il regalo giusto per la persona giusta.

Da qualche anno a questa parte, però, il mio Natale si snoda tra sentimenti contrastanti.

Chi, come me, ha avuto una perdita importante, lo capisce di certo.

A Natale l’assenza di mia madre si fa sentire in modo subdolo.

La vita è andata avanti: sono passati sei anni dal nostro ultimo Natale insieme, pieni di vita, e attorno a me ho la grande fortuna di avere persone che mi amano profondamente.

Nessuna è lei.

Ho imparato a godermi la gioia anche con questa piccola nota malinconica, a lasciarmi avvolgere dall’amore di chi ho intorno. Tuttavia, a volte, e senza preavviso, il mio Natale diventa faticoso. Sento solo il vuoto, l’ingiustizia di una vita che scorre senza di lei, strappata troppo presto al Natale coi suoi figli.

Rabbia. Tristezza. E felicità. Grazia, gratitudine per la benedizione di non essere sola.

Natale è un insieme di sentimenti complessi come un cuore umano.

Tutti legittimi, non dimentichiamocelo. La gioia non è un obbligo, è un miracolo.

                                                         Blufiordaliso

-15, -10, -5… Il conto alla rovescia ci avvicina sempre di più a un nuovo Natale, ormai alle porte.

Oggi, 20 dicembre 2018, è il terzo giovedì del mese: giorno di uscita dell’articolo condiviso con Ritenzione lirica, giorno -5 al Natale e giorno particolare anche per la vostra book blogger, che questa sera avrà l’incontro natalizio del Gruppo di Lettura Adulti Bufò con Margherita Oggero come ospite. Lungo respiro, dunque, and keep calm che tutto si sistema.

Eh già, perché gli ultimi giorni prima della fatidica Vigilia – in automatico gli ultimi prima della fine dell’anno – possono essere di frenesia pura e, generalmente, per me lo sono.

Pezzi da scrivere, recensioni da pubblicare, nuove uscite letterarie di gennaio da vagliare per l’articolo di inizio mese, stesura di qualche nuovo progetto e, soprattutto, organizzazione dei giorni di festa.

24, 25, 26, 31, 1, 6 incombono sulle nostre vite. Senza pensare a tutte le cene, aperitivi, caffè dei giorni precedenti, quei momenti in cui incastri gli auguri con i colleghi, gli auguri con amici che vedi solo ogni tanto, gli auguri con i compagni di fisioterapia, con i lettori dei gruppi, con i vicini di casa.

E sono tutti bei momenti, alla fine, perché, anche se è vero che ci si incontra in occasione di una “festa comandata” (che oggi più che altro è “festa commerciale”), sono pur sempre attimi che ci regaliamo per stare insieme.

Solo che sono tanti. E tutti spaventosamente concentrati.

Il che obbliga un’orsa bruna come me, abituata a un impegno ogni tanto (con parsimonia, mi raccomando), alle serate sul divano con copertina e libro o serie tv a dividersi tra molteplici occasioni in compagnia dell’umanità.

Ecco il primo problema: se tutto ciò fosse scaglionato nel corso degli undici mesi che precedono dicembre diciamo che forse sarebbe meglio.

Ovviamente a tutti questi appuntamenti si conviene arrivare muniti di cibo e regali, va da sé.

Questo è l’aspetto del Natale che mi piace di più: dedicare del tempo a occuparmi espressamente delle persone a cui tengo. Avercelo il tempo.

Ecco il secondo problema: vuoi mettere arrivare alla cena tra amici con un bel contenitore stipato di insalata russa? Figurone e gioia.

Solo che per prepararlo ci hai messo tre ore, ritagliate durante la notte precedente, quando con un occhio guardavi la replica di L’amica geniale su Raiplay e con l’altro stavi attenta a non pelarti un dito mentre sbucciavi le patate da mettere a bollire.

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Comprare l’insalata russa in gastronomia? Fuori discussione. Meglio svegliare il vicino col rumore del frullatore alle due di notte, che le uova mica di montano da sole, anzi: se non fai attenzione la maionese impazzisce pure.

Risolta la questione cibo resta tutta la parte regali.

Ed ecco il terzo, molteplice, problema.

Io amo comprare regali. Amo scegliere, pensarci prima accuratamente, scrivo persino una lista dettagliata con nomi e relative idee prima di cominciare gli acquisti. Lista che poi rendo definitiva, scrivendo i regali effettivamente presi a ciascuno.

Lo faccio da anni: #christmaslists che si aggiungono a tutte le altre (troppe) liste che scrivo ogni giorno, dei più svariati generi.

Fare un bel regalo significa pensare intensamente alla persona in oggetto, cercare qualcosa apposta per lei.

Questo, a volte, un po’ di stress lo genera, ammettiamolo. Persone con zero interessi, ma a cui vuoi molto bene: cosa regalare loro? Persone a cui fai regali da vent’anni e hai già esaurito tutta la gamma delle possibilità alla tua portata: cosa regalare loro?

Insomma, fare regali talvolta può essere complicato. Diciamo che qualche soldino a disposizione non guasta, in tal caso: non sarà l’originalità a essere premiata, ma un bel maglioncino fa pur sempre la sua figura, ad esempio. E se azzecchi il colore potrebbe anche diventare un capo d’abbigliamento molto amato.

Alcuni regali colpiscono dritto al cuore e magari sono biscotti fatti in casa. Per gli altri qualche soldino è necessario.

E qui un velo di tristezza può abbattersi su di noi: in periodi di vacche magre tutto ci pare più costoso, nulla che faccia al caso del nostro portafogli. Lo so, può sembrare un ragionamento venale. E lo è, in effetti. Ma lo sappiamo: è la bellezza che salverà il mondo. E la bellezza, spesso, costa.

Comunque, non potendo fare altrimenti, lungo respiro anche in questo caso and pazienza, sarà per il prossimo Natale.

Intanto io sforno più biscotti. Che l’home made è sempre una bellezza (e in questo caso anche una bontà).

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Risolti i tre principali problemi del Natale, va da sé che rimanga per me un bel momento dell’anno. Velato da un po’ di malinconia, forse questo sì.

Per molti anni mi sono interrogata sul perché io mi senta così a Natale e una risposta vera non l’ho ancora trovata. Capitemi, ero pur sempre una bambina che il 24 faceva i compiti delle vacanze fino alle sette di sera, per sua precisa scelta.

Forse sono così perché, in fondo, so che non importano i regali, le decorazioni, le lucine. Rendono tutto un po’ più carino, certo. Ma sono le persone i veri protagonisti del Natale. E probabilmente sono quelle che mancano a essere veramente presenti.

La malinconia rimane, è vero.  Ma che ci volete fare: vorrà dire che per tirarmi su leggerò qualcosa di bello! A presto, con una nuova lista di splendidi libri: i libri del Natale 2018. Auguri!

Esprimi un desiderio

Per la nostra collaborazione di novembre, Blufiordaliso si è ispirata a un albo fotografico e mi ha proposto di esprimere un desiderio.
Facile, no? No. Per niente, almeno per me.
Per questo, quando Sara mi ha lanciato l’idea, ho colto la palla al balzo per esercitarmi. Ho provato a usare una poesia per esprimere un desiderio: la trovate in fondo al post, preceduta dal percorso che mi ha portata a scriverla.
Ma come mai abbiamo scelto proprio questo tema?

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BLUFIORDALISO

Tutto è partito da un bellissimo albo fotografico: Esprimi un desiderio di Anna Masucci e Donata Curtotti, in libreria da oggi per VerbaVolant.
Durante la fase di raccolta titoli per il mio consueto articolo sulle novità editoriali, ricevo una mail dall’ufficio stampa: questo albo sta per uscire, mi arrivano la scheda e alcune immagini. È amore a prima vista.
Il blu intenso dello sfondo screziato dalle scie delle stelle, così luminose, così presenti: sono colpita dritto al cuore.
Chiedo di mandarmi maggiori dettagli, decido istantaneamente di scriverne in questo spazio. Esprimi un desiderio diventa la mia frase-mantra, propongo l’idea a Irene et-voilà.

La luce fa da rassicurante cornice ai personaggi, un ragazzo e una ragazza, che si muovono leggiadri. Lia e Leo si incontrano: lui confessa per primo il suo sogno; lei gli porge l’ombrello col quale iniziare il loro viaggio, alla ricerca del sogno comune.
Il desiderio di Lia e Leo è lo stesso: il senso di magia comincia da qui, dai pensieri totalmente in sintonia, dalla forza delle poche parole che si scambiano. Fanno questa cosa e la fanno insieme, da subito, con sicurezza, come dei predestinati.
Viaggiano verso le stelle, tra case dai tetti appuntiti raffigurate come un bouquet di matite ben temperate, per citare il film che ha fatto innamorare tutti i lettori, C’è post@ per te.
Il loro volare ha i profumi d’arancia e di ricotta, delle terre natie delle due autrici.
Volano sulle speranze infrante di tante persone (e non possiamo non pensare al nostro Mediterraneo), ma la speranza di Lia e Leo non muore, non è possibile.
Dopo tanto viaggiare sono stanchi, stremati: si dondolano su uno spicchio di luna che è sicurezza.

Poi la raggiungono, la loro stella.
E le confidano il desiderio di entrambi: proprio qui si stravolgono tutti i cliché narrativi, tutti gli scenari che potremmo immaginarci leggendo.
Non voglio anticipare altro: facciamo nostra questa lettura con calma, con la poesia nel cuore che merita.

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Esprimere un desiderio, per chi bambino non lo è più, significa poter continuare a sognare. Essere legittimati – in pochi, determinati momenti – a farlo.
Il make a wish è un momento riservato al soffio sulle candeline di compleanno, alle stelle cadenti della notte di san Lorenzo, al lancio della monetina dentro una fontana.
Certo, possiamo sempre esprimere i nostri desideri nel profondo del cuore, dentro di noi. O scriverli sulla lettera a Babbo Natale, che per i grandi è mettere nero su bianco il sogno delle cose belle. In fondo anche pregare è un modo per esprimere i propri desideri.

Ma quando tra due persone avviene un incontro di anime, ecco è lì che due desideri uguali si uniscono in un’unica scia di luce: dopo aver letto questa storia sapremo con certezza che l’amore può tutto e che dopo essersi scelti si rincorre sempre la stessa stella.
Un ultimo dettaglio: osservate bene le illustrazioni fotografiche tratte dall’albo.
Donata Curtotti ha realizzato i personaggi con un materiale inusuale e inaspettato: il fil di ferro. Ve ne eravate accorti?

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RITENZIONE LIRICA

Ho provato anche io a entrare nell’atmosfera descritta da Esprimi un desiderio: nel mondo rappresentato in queste foto, delicatamente evocative, tutto sembra possibile.
Anche esprimere un desiderio.

Sì, un desiderio: una richiesta pura e semplice. Alle forze del cosmo, al caos della vita, a Dio, alla fata dei denti. Desidero questo, quello, quest’altro. Ti prego, esaudisci il mio desiderio.
Io non so farlo. E tutte le volte in cui mi ritrovo davanti una candelina, mentre chiudo gli occhi, sorrido e mi limito a chiedere mentalmente un po’ di luce.

Sogno, e parecchio.
Cercare di realizzare i miei sogni dà un significato alle mie giornate. Stendo ambiziosi piani di conquista e cerco di raggiungere gli scopi che mi sono posta, attivando ogni fibra del mio corpo.
A volte cambio obiettivo: magari scopro che c’è qualcosa di meglio, di quel che pensavo di volere. Qualcosa che neppure immaginavo esistesse. Sono una sognatrice flessibile. Si fa sempre in tempo a cambiare rotta, l’importante è continuare a sognare.
Senza sogni non ci so stare.

Un sogno, però, non è un desiderio.
Sognare è un atto di volontà, presuppone un atteggiamento attivo. Ti devi sbattere. Desiderare, invece, è un gesto di fiducia.
Esprimere un desiderio significa affidare a qualcuno il potere di renderti felice. Lasciare che sia qualcun altro, a costruire al tuo posto. La vita, il fato, Dio. Non tu.
E io non lo so, se voglio rinunciare alla soddisfazione di inseguire i miei sogni io stessa, personalmente.
O, più semplicemente: non so se riesco a cedere il controllo al punto da mettere la mia strada nelle mani di una forza innominata. In fondo, se esprimo un desiderio, sto chiedendo alla vita di lavorare per me. Dandole una sola consegna: la mia volontà del momento. E se poi cambiassi idea? E se invece esistesse qualcosa di meglio, di quel che pensavo fosse il massimo?
A quel punto che valore avrebbe, il mio desiderio? Che poi magari si avvera davvero, e mi ritrovo vincolata a qualcosa che non voglio più.

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Insomma, una fatica immensa.
Eppure esistono moltissime teorie, al riguardo. Ad esempio la legge dell’attrazione, che funzionerebbe all’incirca così: se non esprimi il tuo desiderio, non puoi pensare che si avveri.
Se non capisci che cosa vuoi, neanche Babbo Natale saprà mai che cosa regalarti: figuriamoci tu.
Forse questo compromesso posso accettarlo. Proverò a esprimere un desiderio, senza chiedermi se sia giusto o sbagliato, definitivo o provvisorio, il meglio o un compromesso.
Solo affidandomi.

ESPRIMI UN DESIDERIO

Mi hai detto piano: – Esprimi un desiderio.
Ho infilato le dita nel mio sguardo
per cercare un filo che portasse al centro.
Non ho ancora trovato una richiesta.

Desidero un respiro sconfinato
tra i sospiri plumbei del mio affanno;
mi sia svelato il sentiero giusto,
facile al passo, senza inciampi.

Possa io avere un laccio di risate
e leggerezze in grado di acciuffarti
quando temo d’aver per sempre perso
il mio trono al centro del tuo sguardo.

Coltivo solo desideri sporchi,
tutti: di calce viva, di cemento.
Tra macerie e nuove fondamenta
i miei desideri cercano la via.

E’ solo un trucco?

Rieccoci di nuovo insieme a Sara di Blufiordaliso: anche questo mese vogliamo provare insieme ad esplorare un tema che ci offra spunti di riflessione o ispirazione.
Stavolta abbiamo pensato al trucco.

Un argomento su cui spesso troverete spunti, su Ritenzione lirica; quanto a Blufiodaliso, un blog dedicato alle sfumature delle storie non può che trovarsi a suo agio tra pennelli e colori. Partiamo, dai!

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RITENZIONE LIRICA

Sono sempre stata profondamente affascinata dal trucco, dal suo potere di plasmare la realtà.

Ho iniziato a truccarmi molto presto: avevo circa 13 anni.

Le prime incursioni nella trousse di mia madre servivano soprattutto a farmi sentire donna. Prendevo il viso di una bambina, le sopracciglia ancora indisciplinate, le guance paffute, liscissime. E con un po’ di mascara e un sacco di ombretti provavo a trasformarlo in un viso di donna.

A volte alzavo gli zigomi, cercando di sfinare un faccino tondo. Altre volte creavo improbabili sfumature sulle palpebre, che, come tele, si prestavano a trasformarmi nella regina delle nevi, in una cantante hip hop, in una specie di dea del fuoco.

Era un gioco.

Crescendo ho imparato a truccarmi per interpretare un personaggio. Davanti allo specchio scelgo ogni mattina quale parte di me stessa far emergere, che donna voglio essere. Più calda, più fredda, più matura, più fresca. Più naturale. Più sofisticata. Pin up. Hippie.

È un esercizio di interpretazione.

Truccarmi è indossare un’armatura. Spesso non ho voglia di lasciare a chiunque la possibilità di vedere l’espressione facciale dei miei pensieri. Non tutti possono guardarmi nuda nelle mie debolezze, nelle mie piccole felicità segrete, nelle mie paure.

Il trucco è un filtro, un modo per controllare l’aspetto esteriore del mio sentire, per provare a decidere io che forma avrà oggi il mio sguardo, il mio viso, il mio silenzio, il mio modo di attendere l’autobus.

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Dopo ben sedici anni di make up ho provato a stilare un piccolo prontuario di istruzioni per un trucco consapevole, che se vi truccate vi farà sorridere, se non vi truccate magari vi farà capire un pochino di più cosa sia per noi quel filo di matita.

PER UN TRUCCO CONSAPEVOLE

Uno: scegli bene il mascara. È lo scudo dello sguardo. Col mascara giusto sarai in grado di filtrare il mondo, di decidere tu che cosa vuoi vedere nelle strade, nelle parole, nei gesti. Tutto ciò che vedi passa attraverso il ventaglio delle tue ciglia: sei tu ad avere il controllo di quel che fai entrare.

Due: il trucco si sbava. Mentre fai l’amore, quando piangi. Durante una corsa e per le risate. Anche solo per l’aria fredda del mattino: quel breve tragitto dalla metro al lavoro è abbastanza per far colare tutta la matita sulla rima interna, dandoti quell’aspetto a metà tra la punkettona e la tossicodipendente. Dei rossetti non ne parliamo: hai presente come ti ritrovi le labbra, dopo un caffè e una brioche?

Un bel chissenefrega. Se alla sera hai ancora il trucco intatto, forse significa che non hai vissuto abbastanza, per oggi. Lasciati stropicciare dalla vita, lasciati sbavare il mascara, lascia che il gloss strabordi fuori dagli angoli delle tue labbra. Lascia che il mondo veda che ti piace vivere, portati sul viso tutta la tua giornata.

E alla fine, se serve, riconduci al suo posto tutto il tuo sentire, col semplice, banale gesto di ritoccarti il trucco.

Tre: più mascara. Nella vita, alla fin fine, è tutta una questione di interpretazione; scoprirai che il mascara giusto plasma il tuo sguardo nella direzione che vuoi tu, permettendoti di vestire i panni della donna che vuoi essere oggi. Scegli tu a quale versione di te vuoi dare spazio, e disegnale lo sguardo come meglio credi. Segnala con la matita se ti occorre quel piglio deciso che oggi proprio non vedi allo specchio; un filo di eyeliner se vuoi liberare la seduttrice; se hai lo sguardo dritto e vibrante, tienilo libero, non aggiungere niente. Un buon mascara basta a sé stesso.

Quattro: gli ombretti vanno sfumati bene. Mentre scegli i colori, non pensare solo a come sei vestita. Lasciati emergere fuori quello che hai dentro.

Troverai tante sfumature diverse. Lo scazzo perché è lunedì, quel fantastico jeans ormai stretto che hai deciso di pensionare. Il grigio fuori dalla finestra. Ma anche la frenesia di incastrare tutti gli impegni di oggi. Quando lui ti ha afferrato la schiena come piace a te, baciandoti prima di uscire.

Lascia che i colori del tuo umore si fondano fra loro.

Quelli brillanti, nell’angolo dell’occhio. I toni scuri appoggiali sulla piega della palpebra: ci vuole un tocco di oscurità, per rendere magnetico uno sguardo. Le tonalità che più ti caratterizzano vanno messe lungo tutta la palpebra mobile: se te la senti, tira fuori un punto luce al centro, un tocco di ombretto dorato o argentato. Non deve essere per forza di oggi: può essere un ricordo felice, un bacio che ti è rimasto nei sospiri.

Completa con un tocco di eyeliner: ma solo se sei confusa e temi che il tuo sguardo possa perdersi tra tutti colori del tuo cuore. Altrimenti sei perfetta così, con le tue contraddizioni che sfumano una nell’altra.

Infine: per chiedere un aumento, vai completamente struccata. Mostrati nuda, fiera delle tue debolezze. Disarma il tuo interlocutore con le tue occhiaie accennate, con le tue labbra senza sangue. Sii fiera dei tuoi lineamenti, delle tue rughe e dei tuoi sfoghi cutanei.
La sicurezza con cui porti il tuo viso libero in giro per strada verrà a galla prepotente e ti farà brillare di una bellezza tua, inimitabile.
Ma se è qualcosa di davvero importante, non esitare: per prima cosa metti su un bel rossetto.

BLU FIORDALISO

Truccarsi è un verbo riflessivo che lascia, ancora oggi, molto spazio ai tabù, ai preconcetti, ai giudizi. Si truccano le attrici prima di salire sul palco: il cerone nasconde ogni imperfezione; il trucco modifica addirittura alcuni tratti del viso, del corpo.

Rende le persone perfette. Fisicamente perfette per interpretare la parte a loro assegnata.

Il trucco crea una maschera, ma non pensiamo alla cipria Luigi XIV e ai nei di Madame de Pompadour. Il trucco c’è ma non si vede: il make up di oggi nasconde senza farsi vedere ed è tutto un invisible. E proprio perché non si vede compie i miracoli, rendendoci il più perfetti possibile.

Ma questo è il trucco dei pochi, riservato alle persone dello spettacolo, alle passerelle, alle fashion blogger e realizzato da chi trucca di professione, i make up artist, che noi, donne comuni, invidiamo da morire cercando di abbozzare con il nostro make up home made 2.0, evolutosi grazie ai tutorial di Clio.

Qual è il vero ruolo del trucco nella vita di tutti i giorni? È indispensabile o soltanto necessario?

Lo consideriamo ancora un vanto per poche? Oppure il simbolo della frivolezza?

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Le donne che la mattina escono di casa senza nemmeno un velo di bb cream sono poche, soprattutto nella fascia 14-55 anni.

Queste magiche pomate hanno rivoluzionato la nostra cosmesi di donne normali, diciamocelo.

Scalzate basi, polveri e spugnette grondanti fard, ora bastano un paio di minuti per uniformare la pelle del viso e nascondere le imperfezioni.

Santità subito, dunque, per gli inventori della bb cream, formulata per la prima volta in Germania negli anni ‘60.

Sistemato il viso, rimane soltanto il 90% del corpo a cui pensare.

E allora largo a smalti, creme idratanti e impacchi per capelli. Anche in questi casi con straordinarie rivoluzioni più o meno alla portata di tutte.

Basta volerlo.

Già, perché talvolta non si ha per niente voglia di truccarsi o di passare un’ora e mezza in compagnia dell’estetista per il semipermanente.

Rivendichiamo il nostro diritto di essere e apparire al naturale, ogni tanto.

Siamo un corpo in evoluzione, così come (si spera) sono perennemente in evoluzione i pensieri.

Il nostro viso può essere segnato dalle occhiaie, quando dormiamo poco. La pelle delle nostre mani può essere secca, in un giorno ventoso. Le nostre unghie possono essere rosicchiate, se ci capita un momento di particolare nervosismo.

Non per questo siamo meno donne.

Lo dice anche Chimamanda Ngozi Adichie nel suo Cara Ijeawele – Ovvero quindici consigli per crescere una bambina femminista (Einaudi).

Chimamanda è un’autrice nigeriana, originaria di Abba, nello stato federale di Imo.

Ha 41 anni e di mestiere scrive. Cose intelligenti.

I suoi romanzi L’ibisco viola e Metà di un sole giallo, entrambi editi in Italia da Einaudi, hanno vinto premi importanti. Da un brano del suo discorso Dovremmo essere tutti femministi, tenuto durante una conferenza TEDx nel 2013 (che potete vedere e ascoltare, anche sottotitolata, qui), Beyoncé ha campionato Flowless.

Cara Ijeawele è la lettera scritta a un’amica appena diventata mamma di una bambina.

Chimamanda è una femminista e non se ne vergogna. Il suo femminismo è concreto, vicino a tutte le donne, privo di cliché. Proprio per questo mi piace molto.

Ho studiato i movimenti femministi, dagli albori a oggi, e continuo a farlo. È fondamentale conoscere i processi storici e le loro evoluzioni nel tempo e nei luoghi. Sono argomenti di grande attualità anche le questioni che si dibattevano nell’Ottocento.

Oggi, però, spesso si cade nell’isterismo, nell’autocommiserazione, nel dare implicita importanza ai ruoli di genere, anche se a parole li si rifiuta.

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L’ottavo consiglio che Chimamanda scrive alla sua amica è “Insegnale a bandire l’ansia di compiacere. Il suo obiettivo non è rendersi piacevole agli altri, il suo obiettivo è essere pienamente se stessa, una persona onesta e consapevole della pari umanità degli altri”.

E possiamo essere pienamente noi stesse con o senza trucco.

Il make up ci può aiutare, sostenere, valorizzare. Ma non ci deve mai nascondere, come una maschera calata per celare noi stesse agli occhi degli altri.

Nel decimo consiglio Chimamanda scrive “Se le piace truccarsi, lasciaglielo fare. Se le piace la moda, lascia che si metta in tiro. Ma se non le piacciono quelle cose, accettalo. Non pensare che educarla al femminismo significhi indurla a rifiutare la femminilità. Femminismo e femminilità non si escludono a vicenda. È da misogini pensare che sia così”.

Cerchiamo di piacerci per quello che siamo; troviamo il giusto equilibrio per noi stesse.

È difficile, lo sappiamo. Ma possibile.

Anche gli uomini che ci circondano capiranno, così, che siamo sicure di noi stesse.

E che sappiamo di valere.

 

 

 

(Ri)cominciare

Ritenzione lirica vuole essere, prima di tutto, uno spazio di condivisione.
L’idea di pubblicare poesie, infatti, nasce dalla consapevolezza della possibilità di uno scambio di emozioni con chi mi legge, come vi ho raccontato nelle Informazioni.

Tra gli incontri piacevoli che sono nati grazie a Ritenzione lirica, c’è quello con Sara Valinotti, autrice di Blufiordaliso.
Questo blog, con delicatezza e grazia, racconta storie, soprattutto di lettura: in solitaria, consigliando titoli interessanti, e in condivisione, riportando le esperienze di Sara all’interno di gruppi di lettura.

Abbiamo pensato di prenderci uno spazio condiviso, per trattare insieme temi di interesse comune. Ogni terzo giovedì del mese leggerete un post a quattro mani, come questo: Ritenzione lirica pubblicherà e consiglierà poesie, poeti e raccolte di versi; Blufiordaliso vi parlerà di libri e di scrittura, suggerendovi titoli e spunti di lettura.

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Non ci resta che partire. E il primo articolo di questa nuova avventura non poteva che essere dedicato ai (nuovi) inizi: cominciare e ricominciare.
Settembre, poi, è un nuovo capodanno per la maggior parte di noi.
Ritorniamo dalle vacanze con energie tutte diverse e tanti buoni propositi, che spesso si trasformano in idee concrete, in progetti che vedono la luce e che ci danno fiducia. A settembre si ricomincia sempre: lo impariamo da piccoli e questa sensazione ci segue per tutta la vita, anche quando la scuola è finita da un pezzo.

Blufiordaliso
Ricominciare con gli amori

Per quanto riguarda il mondo delle letture, beh, settembre è uno dei mesi clou: la rentrée littéraire di inizio autunno rappresenta uno dei momenti topici per l’editoria internazionale, quindi arrivano sugli scaffali delle librerie – e di conseguenza delle nostre case di avidi lettori! – molti nuovi titoli.
Blufiordaliso ve ne aveva già parlato a inizio mese, in un articolo che potete leggere qui, selezionando 12+1 titoli che possono tenerci compagnia per iniziare l’autunno e ricominciare un nuovo anno di letture.
Questi titoli sono stati scelti pensando anche alla lettura condivisa: a settembre, infatti, ricominciano gli appuntamenti dei gruppi di lettura, sempre di più (per fortuna!) e sparsi in tutta Italia. Leggere insieme, conversare su un libro letto da tutto il gruppo, è un momento speciale, che possiamo dedicare a noi e noi soltanto, sapendo di ricavarne ogni volta benefici per l’anima. Non tutti i libri sono adatti per la lettura condivisa: alcuni risultano particolarmente ostici; altri colpiscono così forte al cuore da richiedere un tempo di metabolizzazione molto lungo.
Questi 13 titoli appena pubblicati sono delle valide novità e degli ottimi spunti per la nuova stagione di un gruppo di lettura.

E tra di loro c’è lui, L’amore di Maurizio Maggiani, edito da Feltrinelli per la collana Narratori.
Cominciamo dalla copertina, una fotografia di Bruce Davidson: due amanti che si baciano, mentre camminano. Bianco e nero, l’attenzione tutta concentrata sui corpi.
Bruce Davidson inizia a fotografare ispirato da una frase di Cartier-Bresson:
“Credo che nel corso della nostra vita la scoperta del mondo che ci circonda avvenga di pari passo con la scoperta di noi stessi.”
Inizia così una carriera dedicata tanto ai ritratti intimisti quanto alla fotografia di tipo documentaristico, che però conserva sempre una vena profonda, accentuata dalla scelta del bianco e nero per ogni scatto.

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I due amanti della copertina sono lo sposo e la sposa, coloro che animano la storia di Maggiani.
Una storia che pesca qualche elemento (chissà quanti, in realtà) dalla vita dello scrittore, ma lo fa in modo lieve e imprescindibile: i lettori lo sentono, può essere soltanto così.
È lo sposo l’io del libro. Maurizio Maggiani lo fa parlare passando dalla terza alla prima persona senza che quasi ce ne accorgiamo, ma senza mai toccare il discorso diretto.
Sono riflessioni intime le sue, intrinseche come il bacio sulla copertina, scambiato camminando, un bacio tra due persone che non si fermano nel loro cammino insieme.
Lo sposo passa la sua giornata da solo, in una grande casa descritta attraverso dettagli che ci fanno innamorare degli spazi, dei colori, dell’autunno e delle superstizioni. Cucina per la sposa, pensa alla sposa, si aggira per le stanze e nel giardino e nelle campagne con l’unico scopo di rendere belli i momenti passati con lei. E, per raggiungere l’obiettivo, lo sposo ci narra la sua vita, parlandoci di quando era il figlio del popolo, il fabbro, lo zoppo. Lo fa raccontandoci i “fatterelli”, ripensando ai passati amori così come la sposa desidera ascoltarli, nel sonno inquieto di certe notti. Solo le donne del passato prendono un nome proprio, la Padoan, la Chiaretta, la Mari marina marosa. E Ida la bislunga, colei che ci accompagna fino alla fine del libro: è un momento del passato che ritorna per andarsene, con un messaggio nel presente.
Questo è un romanzo da leggere lentamente, da assaporare. Ogni pagina, ogni capitolo, fino al più lirico di tutti, l’ultimo, Mattina, è una dichiarazione d’amore.
Questo è un romanzo da condividere, perché racconta la vita di un uomo, di un sogno e dei dettagli. E tutto ciò appartiene inevitabilmente alla nostra natura.
Leggiamo un romanzo scritto come una poesia, come una ballata.
Dedichiamoci agli amori per ricominciare.

Ritenzione lirica
Ricominciare è vivere

In generale possiamo descrivere settembre come il periodo giusto per provare a cambiare qualcosa di noi stessi, ad uscire dalla nostra comfort zone. I nostri buoni propositi sono i più vari e, spesso, riguardano il nostro stile di vita: un nuovo corso di ballo, l’immancabile dieta, l’iscrizione in palestra.

Però c’è un problema, diciamocelo: si rischia di cadere.
Quando cominciamo qualcosa di nuovo, non abbiamo esperienza di ciò che ci aspetta e difficilmente i nostri risultati saranno subito eccellenti. E’ più probabile incappare in un fiasco.
Ci toccherà allora ricominciare un’altra volta, ripartendo da dove eravamo caduti. In un succedersi continui di nuovi inizi.
E’ con questo pensiero in testa che ho scritto RICOMINCIATI.

Ricomincia.
Avrai paura di sbagliare i modi, 
danzatrice scoordinata 
sulle note di un samba sconosciuto 

Il souffle’ ti si sgonfiera’ in forno
quel vestito resterà nell’armadio:
undici allenamenti di cardio
non basteranno a piallare una vita
di gelato sdraiata sul divano.

Tu ricomincia.
Se fossi pronta per essere oggi
la donna che sempre hai voluto creare 
il ballo del samba sarebbe finito
non avresti più nulla da imparare
e potresti accostarti stanca alla fine.

Tu invece ricomincia
parti sempre dal via e goditi il viaggio
casca ogni giorno per rialzarti nuova,
sbaglia la strada, scopri nuove vie, 
ama il tuo riflesso mentre piangi
e quando hai finito non domandare
se la lacrima è gioia o dolore,
ricomincia 

riparti da zero,
taglia ancora i capelli 
riprovaci ancora,
spariglia i tuoi sogni,
innamorati del tuo nemico, perdona
e ricomincia un nuovo respiro
una nuova digestione e un nuovo sonno.

Ricominciati sempre
e non finirai mai.

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