Io le vomito, le mie poesie. Funziona così.
Qualcosa cresce in me, si accumula fino a offuscarmi la vista.
Può essere un pensiero, una chiave di lettura sulla vita che mi appare, come un’epifania, mentre sto facendo tutt’altro.
In altri casi è un paesaggio, un posto nel quale finisco per caso: lì trovo le parole, parole che non conoscevo prima e che, pure, mi aspettavano da sempre.
Infine in certi casi mi succede di avere sentimenti da metabolizzare, fermi da anni o minuti sulla bocca dello stomaco. Stanno là, inespressi, sul ginocchio: come un accumulo di ritenzione idrica che ti fa sentire le gambe sempre più pesanti a ogni passo.
Ciò che sento diventa parola, si fa strada nella mia testa e arriva a occuparla tutta.
Ma è ancora informe: ho dentro come una nuvola, intuita ma mai interamente compresa.
Poi, di colpo, il meccanismo si sblocca: ho trovato la musica. Non sono io a sceglierla, è lei che arriva quando arriva lo sento. A volte è una canzone che neanche mi piace.
Fatto sta che la musica giusta mi trova e mi disinnesca. Ed è lì, che la parola prende forma: devo fermarmi, scrivere, lasciarla fluire libera.
Metto in loop la mia chiave di volta e mi prendo il tempo per vomitarmi.
La parola sgorga naturalmente fuori dal mio petto contratto, dal mio stomaco che traboccava di sensazione, come un vomito incontrollabile che può solo uscire e liberarmi.
Può essere doloroso, ma non lo è quasi mai. E’ magico, mi sgrana gli sguardi.
E’ un po’ come se quella parola fosse stata dentro di me, trattenuta dal mio corpo: era proprio ritenzione lirica, lì, sulle ginocchia, a segarmi il passo. Si può formare nel tempo oppure tutto a un tratto, in un giorno di particolare calore.
La canzone giusta è come un diuretico, quell’acqua ristagnata diventa una parola nitida e prende vita autonoma, esce fuori di me.
Fino a poco tempo fa non li rileggevo quasi mai, i miei “vomiti”.
Non ne avevo cognizione o giudizio.
LI chiamavo “vomiti”, non in quanto brutti o schifosi, ma per come nascono, un flusso nello stomaco che deve uscirmi dalla bocca.
La mia poesia non è bella: è funzionale.
Poi, una volta usciti, non mi servivano più: una volta che la parola ha preso forma, io sono libera e più consapevole, un passo avanti nel lungo percorso di conoscenza di me stessa.
A lungo non mi sono mai riletta, non ne avvertivo il bisogno.
Senza lettori, però, la mia parola non esiste. Ho sempre avuto bisogno di scriverla su piattaforme, su Facebook, ad esempio. Se nessun altro la vede, è come se non fosse mai esistita.
Io scrivo per trovare un riconoscimento: ho bisogno di sapere che qualcun altro ha colto quella stessa connessione, che non sono l’unica ad essere riempita da una certa sensazione. La mia poesia è un simbolo che unisce con chi mi legge.
Col tempo ho scoperto che la mia parola ha un effetto anche su chi mi legge. Che anche i miei lettori, a volte, usano le mie poesie per depurarsi dalle scorie trattenute dentro.
Ho imparato a rileggermi anch’io, trovando significati nascosti. Ho scoperto il potere di questa ritenzione lirica, ho imparato ad amarla e a non vergognarmene.
Così è nato il mio blog, Ritenzione lirica.
Per lasciare alla parola tutto lo spazio che lei mi chiede.
Non solo: nella relazione con i vostri sguardi ho trovato uno strumento portentoso per condividere emozioni, per comprendere meglio la natura umana e per provare a capire. Per questo scopo ho creato la mia pagina Facebook e il mio profilo Instagram.
Se ti va, seguimi.