Elogio della semplicità

Come ogni terzo giovedì del mese, io Sara di Blufiordaliso ci siamo prese un momento per esplorare insieme un tema. Stavolta toccava proprio a lei scegliere quale: mi ha suggerito di parlare dell’importanza della semplicità.

Allora non aggiungo complicazioni e vi lascio semplicemente le nostre parole. Sperando che questi attimi sottratti alla frenesia del quotidiano per leggerci possano riempirvi di consapevolezza, che possa essere un momento di riscoperta del sè, semplice e intenso, come è stato per noi scrittrici.

La palla a Sara.

BLUFIORDALISO

Durante le festività natalizie appena passate non mi sono fermata un attimo.

I giorni di vacanza sono stati soltanto quelli segnati in rosso sul calendario, occupati dagli impegni familiari e di circostanza che rendono uniche le nostre italianissime feste.

Ci sono stati gli auguri di rito, gli scambi di doni, le mangiate, la tombola con i premi in noccioline e mandarini e le urla dei bambini.

Tutto nella norma, dunque. Tranne, forse, per il fatto di vedere gli altri intorno a me avere qualche giorno di calma, di stop.

Io non ho fatto vacanze, quindi, ma ho sfruttato i benefici effetti di quelle degli altri: il traffico molto minore, i parcheggi liberi e la vista di persone mediamente più sorridenti rispetto al solito.

E questo si è tradotto, inaspettatamente, in una profonda riflessione personale, che mi ha lasciata malinconica, è vero, ma più ricca interiormente.

Vedere le persone intorno a me libere da impegni lavorativi, godersi i giorni di vacanza con la lentezza della colazione al bar all’ora di pranzo e delle passeggiate sul finire del pomeriggio, mi ha tuffata in una dimensione di pensieri come Stai tranquilla, non sta succedendo nulla.

Queste persone erano in vacanza, le loro attività lavorative momentaneamente sospese, e il mondo non stava precipitando, crollando, smaterializzandosi.

Calma. Lungo respiro. I momenti di riposo devono far parte della vita di una persona. Sono una conquista, dal punto di vista lavorativo.

Mi sono tornati in mente i capitoli del libro di storia delle scuole medie, quelli che parlavano della rivoluzione industriale inglese e delle condizioni in cui erano costretti a lavorare gli operai, con turni massacranti, riposi inesistenti, vacanze nemmeno lontanamente contemplate.

Eppure, un po’ di amaro in bocca rimane ancora oggi. Nonostante le lotte, i diritti, le leggi, per un lavoratore, spesso, conservare il proprio posto di lavoro è ancora una condizione difficile per la quale si corre, ci si spreme, si combatte con le unghie e con i denti in ogni momento.

E questa situazione, sovente, si acuisce anche di parecchio quando si ambisce a conservare un posto di lavoro che, nella media, reputiamo migliore di altri.

Ecco, i miei pensieri si sono concentrati proprio su questo punto.

Ha senso puntare sempre più in alto, caricarsi sulle spalle un peso eccessivo, cercare a tutti i costi di realizzare qualcosa nella vita?

Credo che una spinta di questo tipo possa, inizialmente, essere molto positiva. Sintomo di un benessere psicofisico che vorremmo estendere anche al di là di noi stessi, ci prodighiamo e cerchiamo di andare sempre avanti, ponendoci obiettivi e tentando il tutto e per tutto per realizzarci.

Solo che, a lungo andare, questa corrente può portare qualcuno di noi alla deriva.

Parlo dei perfezionisti, di quelli mai contenti e degli eterni insoddisfatti che a testa bassa non si lamentano e vanno avanti. Di quelli che si piacciono assai e di quelli che proprio non ce la fanno senza qualche riflettore puntato su di sé.

Il troppo stroppia, gli anziani lo ripetono spesso. Ma i giovani forse questo concetto non lo hanno mai assimilato.

Mi ci metto pure io, in mezzo. Sono sempre vissuta in tempo di pace, non ho mai patito la fame, sono circondata di comodità. Non nuoto certamente nell’oro, ma nemmeno posso dire di vedere insoddisfatti i miei bisogni primari e pure qualcuno dei secondari.

Mi reputo una persona normale, eppure la corrente di cui sopra ha portato alla deriva anche me.

Io appartengo alla categoria dei perfezionisti. Nulla va mai abbastanza bene; spesso mi ritrovo ad aderire pienamente al motto Chi fa da sé, fa per tre. Credo di essere anche abbastanza generosa. Quindi, puntualmente, mi sobbarco pure qualcosa che spetterebbe a qualcun altro.

Insomma, la corrente mi ha proprio travolta, altroché. E me ne sono accorta in questi giorni di pensieri e di vacanze altrui. Dopo anni, constato inorridita.

All’inizio è stato il panico.

Il momento topico, della completa realizzazione di questo pensiero è stato in auto, tornando a casa, giustappunto, dal lavoro.

Ero in tangenziale, terza corsia. La macchina correva e io mi sono resa conto di avere soltanto questa vita. E di non sapere nemmeno per quanto.

Cosa sto facendo? mi sono detta. E per la prima volta la risposta non è più stata Non abbastanza. Per la prima volta mi sono risposta Forse sto facendo troppo.

Ho cercato di calmarmi, sono rientrata in seconda corsia, poi in prima e di lì, a casa. Il batticuore è passato. Mi sono costretta a pensare a qualcos’altro, un po’ come dopo un brutto sogno.

Ma questa sensazione mi è rimasta addosso e il giorno dopo è diventata una nuova consapevolezza.

Non credete che io lo sapessi già. Consciamente intendo. Assolutamente no.

Lo so da pochissimo, è stato un processo durato più di dieci giorni.

Poi, con Irene ci siamo sentite per organizzare la pubblicazione di questo articolo e io le ho proposto Perché non parliamo di semplicità?

Sentivo di dovermi questo articolo. E di doverlo anche voi.

Chi mi segue su Blufiordaliso e sui vari social media sa che, generalmente, appaio sorridente e sprizzante energia da tutti i pori. Ebbene, sappiate anche che lo faccio per voi, per darvi la carica e, così facendo, darla pure a me stessa.

Ma, da qualche giorno a questa parte, i miei sorrisi e la mia energia hanno una fonte nuova: la consapevolezza della semplicità.

Adesso so che non devo per forza sempre puntare più in alto che posso.

So che non smetterò mai di cercare di migliorarmi (in fondo sono una perfezionista, ricordate?), ma so anche che lo farò rispettando un po’ di più la mia vita su questo pianeta.

E se questo dovesse tradursi in un lavoro semplice e umile, sarò in pace con me stessa.

Perché penso che la semplicità possa migliorami la vita. Renderla migliore a tutti.

La semplicità sta nelle piccole cose. Questo lo dicono non soltanto gli anziani, ma tutti coloro che vogliono stupire.

Secondo me in pochi ci credono. Ma io ho deciso di sì, che ci credo.

E ho deciso ancora un’ultima cosa: alla semplicità voglio abbinare la normalità.

Che si traduce in evitare di strafare solo per piacerci un po’ di più e per colpire gli altri.

Uno dei miei buoni propositi per il 2019, dunque, sarà quello di cercare la semplicità e di imparare a conviverci e a farla mia.

Perché, talvolta, ciò che ci fa stare bene è proprio qui, accanto a noi.

Ed è incredibilmente semplice e normale.

RITENZIONE LIRICA

Quando Sara mi ha proposto di parlare di semplicità, ho accettato con gioia.
E a proposito di semplicità: oggi scriverò molto poco. Sara ha già detto tutto e la semplicità, a volte, è anche fare un passo indietro e non aggiungere troppe parole inutili

Sapete come nascono i nostri pezzi? Ogni mese, una delle due propone un tema. Ciascuna scrive la sua parte e poi le assembliamo insieme.
Sto scrivendo subito dopo aver letto le parole di Sara, e sorrido.

Sorrido perché sono molto felice per lei: ha maturato una consapevolezza importante. La vita scorre.

Io ho vissuto alcune esperienze impegnative, che mi hanno insegnato molto presto ad apprezzare il valore della semplicità.
Ormai sapete, ho perso mia madre a causa di un tumore. Per oltre un anno, ho frequentato con una certa assiduità i reparti oncologici degli ospedali. Lì ho imparato tanta leggerezza.

Sì, lo so, sembra una follia. Invece è proprio così. Non puoi fare a meno della leggerezza, quando sei costretto a convivere con l’idea che potrebbe essere l’ultimo giorno della tua vita.
Sul serio, provate a pensarci. Finisce, questo gioco. Per noi, per chi amiamo. Vivi, non ne usciamo.
E allora possiamo davvero permetterci di farci travolgere dagli eventi? No. Non è possibile. Dobbiamo imprimere una direzione alle nostre giornate, darci uno scopo. E imparare a godere delle piccole gioie.


Io ho assistito a uno spegnimento lento. Mi ricordo quando mia madre ha guidato per l’ultima volta. Non lo sapevamo, ma era proprio l’ultima volta. Era così felice, al volante. Si è goduta ogni minuto di quel tragitto: il sole, la strada, il rombo del motore, le mani sul volante. E poi non ne ha più avuto la possibilità.
E la sua ultima tazza di tè? Quella non me lo ricordo. Un giorno, però, non è più riuscita a bere. Era arrivata ad un punto della malattia in cui poteva alimentarsi soltanto artificialmente. Hanno un valore anche le piccole cose scontate e banali, come sorseggiare qualcosa di caldo, magari intingendo un pasticcino. Io l’ho scoperto così.

Per questo dobbiamo goderci ciò che siamo, ciò che facciamo. Anche quando non è perfetto. E assaporare quei piccoli momenti di pace che ci si presentano tra un impegno e l’altro. Sono tanto preziosi.

A proposito di pace. Ripubblico una mia poesia di qualche tempo fa, che mi è tornata in mente leggendo il racconto di Sara.
Un abbraccio e al prossimo mese!

In una casa mia

43597891_2180387122213084_8854294519173087232_nSono tornata in sala prove.
Ad ascoltare. Lui canta davvero
e cose che amo; canta per me
ogni volta che canta morde
il fiato, respira blues, sputa stelle.

Chissà che fine hai fatto. Tu.
Avrai certo il colore dei miei forse
nascosto ancora sotto le unghie.

Hai scavato un solco nel mio respiro
la notte in cui è finita; di polvere
ho coltri e mantelle a graffiarmi
a corrodermi ancora oggi. Ma ho
perso il tuo numero: non la fiammella
che di caligine mi incise una mammella.

Ti ho lasciato molto lavoro?
Forse all’istante m’hai scordata.
Avrai saputo trovare la via di fughe
romantiche nei seni d’altre. Luce
sulle macerie m’avrai sbriciolata,
calce frantumata e poi masticata,
nella notte una ruspa m’ha scorticata.

Altri ti hanno poi visto tutto intero,
nudo e crudo, perfetto in potenza
come fosti forse solo nel fondo del mio ventre?

Tramonta ogni sera sulle mie macerie
il sole; sempre più lontana è la scia
della tua polvere. Alla fine ho traslocato.
M’hai lasciato schegge, scale, do minori
in mezzo al vento. Tutto ha un senso.
Perfino tu.

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La mia ricetta

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Dubbio in abbondanza
e diffidenza
verso ogni schema troppo rigido;
sette etti di polemica,
un gusto di ricerca
per la falla nella diga
per la parte mancante nella spiegazione
– forse eccessivo, zenzero
in mano a un cuoco occidentale;
una manciata di domande
ricorrenti
talvolta premature
incapaci d’attendere la spiegazione,
che si dispieghi completa,
che lo spettacolo giunga a conclusione:
Perché? o Che accadrebbe però se?
urgenti
anticipo di catastrofi e di bug del sistema,
domande impertinenti dal gusto piccante.

E poi speranza, senza parsimonia
nella possibilità
di raggiungere una coscienza
di rianimare un cuore
un’incrollabile fiducia nella vittoria finale
olio extravergine d’oliva a tenere in piedi la battaglia
ben amalgamata
in ogni sua fase.

Un pizzico di lussuria
ma contenuta
negli sguardi
scoccati come dardi nelle sere estive
sotto ai portici di piazza Vittorio
dietro ventagli di svagatezza
sangue bollente rimescolato
dalla sete della bellezza
noncurante e potente.

E di pazienza, poca, purtroppo:
un cucchiaino appena
in mezzo litro d’ira purissima.

Così mi ha assemblata il caso
o il tempo della vita.
Ma quando cucino io non seguo le ricette
e non saprei rifarmi uguale uguale.

 

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Camera con vista

Camera con vista

Vieni a dividere uno sguardo,
a sgranare l’immagine
calibrando l’obiettivo,
pizzica ogni riserva e
suona il mio canto segreto.

Aprimi il cielo con un morso
come una mela tagliata a metà
assembla il mio sudore nel tempo
fammi regina del respiro
musa del tuo odore di muschio.

La mia anima è nel corpo
pallido morbido umido corpo
nessuna parola
o dono saprà cavarla fuori
soltanto un altro
corpo di sensi e vene di sole.

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Sindrome premestruale

Sindrome premestruale

Nel macinino da caffè
rosso dorato di Bahia
nove chicchi di collera 
fresca: sbriciolo il mare

onde di brezza con i tuoi ritardi
nebulizzate attraverso la sala,
svapora il freno della mia lingua

non butti l’incarto dei tuoi filtrini
mai mai, manco per sbaglio,
lo lasci sempre vuoto sul tavolo
ancora di nuovo
ma porca puttana;

col macinino da caffè
rosso dorato di Bahia
frantumo la rabbia fine
fine.

 

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Incubi

INcubi

Alle due e ventiquattro di una notte qualsiasi
dopo l’amore, la birra e le risa di stelle
mi ha svegliata un temporale.

Ma il cielo è asciutto oltre il confine del mio sterno
non c’è altro tuono che il tamburo del tuo russare
nulla turba la notte degli altri

– erano lampi di consapevolezza
dall’incubatrice del mio cranio.

Vorrei potessi entrare a riaggiustare i pezzi
tecnico del proiettore dietro le palpebre:
riscriveresti la pellicola dei miei incubi
documentario di ricordi distopici
premonizioni male assortite
lacrime abortite che reclamano vita.

Sul tuo petto spengo la pioggia
con la musica del tuo cuore
ninnananna di tamburi.

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